Giordano Meacci

immagine per Giordano Meacci In concorso con:
2016: Il cinghiale che uccise Liberty Valance, minimum fax

Giordano Meacci è nato a Roma nel 1971. Ha pubblicato Fuori i secondi(Rizzoli, 2002) e Tutto quello che posso (minimum fax, 2005). Alcuni suoi racconti sono in Esc. Quando tutto finisce (Hacca, 2012), Sono come tu mi vuoi. Storie di lavori (Laterza, 2009), Deandreide (Rizzoli, 2005) e La qualità dell’aria (minimum fax, 2004). Con Claudio Caligari e Francesca Serafini ha scritto Non essere cattivo (2015) di Claudio Caligari.

foto di Musacchio&Ianniello. AUTORItratti

Intervista all’autore

Ricorda qual è stato il primo libro che ha letto?

Nella storia personale che costantemente mi ricreo, il primo libro che ho letto sono due. Il mago di Oz e I misteri della jungla nera. La memoria oscilla tra un romanzo e l’altro mescolando riletture, scoperte, incantamenti, scogli lessicali. Fino a regalarmi i fantasmi lucidi e intrecciati – quegl’intrecci porosi di fumo e di sole con cui si edificano di solito i dormiveglia – di uno Spaventapasseri intelligentissimo suo malgrado; di un Uomo di latta alla ricerca del proprio cuore. Di un eroe bengalese che, anche se sembra, non muore. E se poi muore, ritorna. Questo già prima, già molto prima delle latitudini sconsiderate di Tom Sawyer e di Long John Silver.

Ci sono scrittori con cui sente di essere in debito?

Sarebbe più facile dire quali sono gli scrittori che amo con cui non sono in debito. Perché non sempre gli scrittori che ami diventano immediatamente maestri di riferimento nella scrittura; almeno: non quando ti accorgi che seguirli rischierebbe di portarti senza ritorno nel salone già ammobiliato, e riconoscibile, della loro casa. Sicché. Se il lettore può compulsivamente scrivere Hemingway, Gadda, Rushdie, Pynchon, Austen, Foster Wallace, García Marquez, Carter, Roth, Parise, Pasolini, Pavese, Joyce, Salgari, Faulkner e, potenzialmente: sempre il lettore potrebbe continuare l’elenco per giorni, ogni volta ricordandosi di aver dimenticato qualcuno. Lo scrittore si lìmita a recitare con rispetto la fatica quotidiana di “perdono tutti e a tutti chiedo perdono”; e intanto scrive.

Ci racconti in breve una sua giornata tipo di quando scrive.

Dunque. Non ci sono giorni in cui non sono uno scrittore. Cosa, questa, che certo non pregiudica quello che scrivo. Si tratta solo di distinguere quello che sono da quello che faccio: che è invece ciò che mi serve per poi mettermi al tavolo da lavoro. E che si riassume in una serie morfologica apparentemente casuale e – si spera sempre – variata nel merito. Sicché: sorprendersi, annoiarsi, affaticarsi, mangiare, innamorarsi, spaventarsi per l’idea della morte, accettare un resto, dimenticarsi, fraintendere, ossessionare. Questo, naturalmente, per brevità. Se invece parliamo di metodo: scrivere, tutti i giorni, fino alla fine.

Cosa le piace del suo lavoro di scrittore e cosa non le piace?

E della mia vita, allora? Che cosa mi piace e cosa no? Dipende dai momenti. Dalle pagine. Ci sono giorni bellissimi; di quelli che fatichi a abbandonare: e allora centellìni eroticamente ogni rigo nella speranza – ingannevole – che quelle meraviglie sospese che leggi non finiscano mai. E ci sono poi scritture da dimenticare sùbito: perché la vita stessa non ti si sporchi in futuro. E però tutto questo, se non sei disposto a prenderti sempre sia la neve sia il bruciaticcio di quel che ti càpita. Ecco. È chiaro, no?

Qual è stata la molla che l’ha spinta a scrivere il suo ultimo libro?

Come dico sempre, la risposta più attendibile a questa domanda è: “il romanzo stesso”. E tutto quello che poi si spiega, in aggiunta, sono divagazioni, suggestioni di scrittore che continua a mentire, iperboli mascherate; vicoli ciechi che finiscono nel buio. Mentre scrivi cerchi ossessivamente di dare risposte a domande che non conosci veramente. Sennò, forse, non scriveresti. Almeno: sennò, forse, non scriverei. E tutto per trovare un modo più onesto, e confortevole, e protettivo, e tuo, di arzigogolare degl’interrogativi. Il punto curvo che ci chiede sempre qualcosa. Ma, almeno nella lingua in cui penso, sempre alla fine.

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