Paradiso

immagine per Paradiso Autore: Stefano Dal Bianco 
Titolo: Paradiso
Editore: Garzanti

Un uomo se ne va a spasso col suo cane per le strade, i sentieri, i boschi, i campi e lungo il fiume nei pressi di un piccolo borgo nelle colline senesi. Tutti i giorni, per tante stagioni, l’uomo e il cane imparano e scoprono qualcosa, incappano in avventure nuove. Si crea così una sorta di concerto a tre voci, dove la terza, onnipresente e silenziosa, ma non del tutto, è quella del paesaggio. Una natura apparentemente non corrotta, a volte protettiva, a volte sottilmente inquietante, ma sempre in grado di trascendere, o di coprire, la penosa pena del vivere. Il paradiso è qui, sembra dire questo libro, quasi in barba alle tristezze e alla negatività di molta poesia di oggi. Eppure non c’è alcuna rimozione del dramma individuale e collettivo contemporaneo, che invece rimane ben presente, ma come se davvero fosse stato superato e relegato sullo sfondo da una sorta di superiore, adulta, saggezza. La voce affabile e magnetica di Stefano Dal Bianco raggiunge qui una rara felicità di pronuncia lirica, e si conferma una tappa obbligata per chiunque voglia orientarsi nel ricchissimo spettro della poesia italiana.

Un uomo, il suo cane Tito, intorno il paesaggio senese: potrebbe essere una buona figurazione di un paradiso minore, terrestre, privo della proverbiale luce divina che si spande in quello dantesco. Un Eden umanissimo: teatro di visioni più o meno rasserenate, più o meno rassicuranti, che – malgrado la brevità dei testi – Dal Bianco orchestra accordando il prevalente endecasillabo a versi di minore lunghezza come nelle stanze della tradizionale forma canzone. Vi domina la luce «radente del sole che cala». Ma anche in questa trascolorante natura che si offre ai sensi è possibile percepire «la maestà / del giorno che finisce» (torna in mente la poesia potente di Yeats: «These are the clouds about the fallen sun, / The majesty that shuts his burning eye»). Così, se il cane è gettato senza scampo nel mondo delle cose fisiche, «Tito ha il naso rasoterra / tutto il tempo perché tutto / profuma di qualcosa», il suo padrone è un io desiderante, continuamente rinviato a un luogo sconosciuto, collocato oltre l’esperienza, oltre il ricordo e l’immaginazione: «perché il profumo è altrove, / perché niente mi basta sulla terra». Perché il paradiso, infine, non può essere mai qui e ora.
(Il Comitato scientifico)


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