L’università di Tuttomio, Il Castoro
Fabrizio Silei Scrittore e artista, ha fondato nel 2014 l’Ornitorinco Atelier, dove tiene corsi e laboratori per bambini e adulti. Vincitore del Premio Andersen come Miglior Autore nel 2014, i suoi libri sono tradotti in molti paesi. Fra i suoi romanzi più amati, Il bambino di vetro (Einaudi), Se il diavolo porta il cappello (Salani) e Nemmeno con un fiore (Giunti). Per Il Castoro ha già pubblicato Mio nonno è una bestia.
Intervista all’autore
Ti ricordi qual è stato il primo libro che hai letto?
Dico sempre ai ragazzi che incontro, scherzando ma non troppo, che sono diventato scrittore a 4 anni, ascoltando le storie che mi raccontava mia mamma. Erano storie vere, sul passaggio del fronte in Toscana, storie di lei bambina in mezzo alla guerra. Mi raccontava anche fiabe toscane terribili, facendo tutte le voci. Nonostante avesse fatto solo fino alla terza elementare aveva imparato a raccontare in casa, intorno al camino acceso dove la sera anziani contadini per lo più analfabeti cantavano in ottava rima, citavano a memoria Dante o L’Ariosto, e raccontavano la Pia dei Tolomei, le leggende di dannati e fantasmi, e qualche fiaba. I libri quando ero bambino in casa mia non c’erano. I primi che arrivarono li portò mio fratello Franco, nove anni più grande di me ed erano libri adatti a lui più che a me. Eppure ecco l’incontro di una vita, le storie e le poesie di Bertold Brecht, difficili, ma anche facili. Rammento le storielle del signor Keener. Sì, dovessi dire un libro direi Storie da Calendario letto a otto anni con la prefazione, che all’epoca saltavo, di Franco Fortini, un altro Franco, non mio fratello.
Perché e quando hai deciso di scrivere un libro per ragazzi?
Il primo libro per ragazzi che ho scritto e pubblicato si intitola Alice e i Nibelunghi e a dirmi: “Sì, lo pubblichiamo!” fu la grande Donatella Zilliotto. In quel periodo dopo gli studi di sociologia, complice un anziano vicino di casa, avevo preso ad intervistare lui e poi molti altri ex internati nei lager dopo l’8 settembre del 1943. Ne feci un libro intervista e poi iniziai a portare questi anziani signori con me nelle scuole perché raccontassero ai ragazzi cosa avevano vissuto. Per l’occasione capitava che i ragazzini facessero ricerche sulla Shoah e le leggessero di fronte a noi. C’era già Internet e rammento che Giuseppe, un bambino di quinta elementare, lesse la sua ricerca. Una frase diceva: “Gli ebrei sono morti soprattutto di fame e di freddo a causa degli americani che hanno bombardato le linee ferroviarie”.
Era un’affermazione negazionista che aveva trovato su un sito all’apparenza di storia contemporanea. Mi venne voglia di raccontare loro chi fossero e sono i negazionisti e perché dicano certe bugie e lo feci in quel mio primo libro. In seguito ripensando alle storie di mia madre e per ritrovare la loro atmosfera scrissi il mio secondo romanzo Bernardo e l’angelo nero, sempre per Salani. A quel punto lo scrittore era emerso.
Ci sono degli autori o un autore in particolare che hanno influenzato il tuo lavoro di scrittore?
Prima ho parlato di Bertold Brecht, dopo vennero tanti altri libri e tanti altri autori. Non uno in particolare, ricordo di aver letto Carlo Levi, Italo Svevo, Dino Buzzati, Franz Kafka alle medie, e imparato quasi a memoria l’Antologia di Spoon River e letto tantissimi libri di Herman Hesse i primi anni delle superiori. Ero molto giovane e “romantico”, da quelle letture mi è rimasta l’idea che i libri possano cambiare il mondo, il destino delle persone, parlare alla nostra vita, che possano essere in qualche modo importanti. È stato invece Roberto Denti a insegnarmi cosa significa scrivere per i ragazzi, la gioia di una leggerezza sostanziosa, e che quando si riesce a far riflettere divertendo, con una scrittura alta, si è ancora più bravi.
Raccontaci in breve una giornata tipo di quando scrivi.
Non scrivo mai una giornata intera, sono troppo pigro per farlo e trovo non sia nemmeno giusto. Quando in una giornata scrivo un capitolo mi considero già fortunato. Ci sono stati libri però che ho scritto tutti di getto, in preda a una sorta di magia. Di solito le storie migliori sono quelle che mi svegliano la notte, o mi pungolano al mattino quando sto per svegliarmi e pretendono di essere raccontate. Non scrivo tutti i giorni, ma quando scrivo mi abbandono completamente agli eventi della storia. Poi me la porto dietro, continua a lavorare dentro di me mentre viaggio in treno, o sono in fila al supermercato. A volte devo attenderla a lungo, fermarmi, allora il libro rimane lì, abbandonato, ma solo apparentemente. Poi, quando meno me l’aspetto, ecco che arriva l’urgenza di scrivere e la storia riparte.
Cosa ti piacerebbe che pensassero i lettori una volta terminato il tuo libro?
Mi piacerebbe che il lettore si divertisse, trovasse nella lettura una gioia e una consolazione, ma anche un piacere quasi fisico. Mi piacerebbe che entrando dentro la storia e il suo linguaggio capisse il lavoro che c’è dietro, l’uso delle parole, dei suoni, e distinguesse questa mia da altre storie che ha letto e che semplicemente narravano dei fatti. Che la riconoscesse come una storia autentica, scritta nell’unico modo in cui poteva esser scritta, o almeno in uno dei migliori, vera perché accaduta in me e non costruita a tavolino. Ma soprattutto sarei felice che il lettore immedesimandosi con Primo o altri personaggi del libro, ridendo dei modi grotteschi di alcuni di loro, provasse per un attimo una vertigine nel percepire quanto il mondo raccontato da questo libro somigli sempre di più al nostro, a quello in cui viviamo, e gli venisse voglia di cambiarlo, come fa Primo. Cambiare gli adulti, i grandi, educarli a recuperare il senso che c’è nello stare insieme, nel creare legami, giocare, abbracciarsi, sorridere, raccontare storie. Recuperare il senso di giustizia che i bambini hanno innato dentro di loro e che noi adulti rischiamo di smarrire con logiche individualiste, competitive. Un mondo male-educato, che, per citare Elsa Morante, solo i ragazzini possono salvare, come accade nel mio libro.
Che cosa consiglieresti a un tuo lettore che volesse scrivere un libro?
Gli consiglierei di raccontare una storia che non è mai stata raccontata, di non pensare mai che già tutto è stato detto, ma che ancora c’è tanto da dire e da narrare. Di guardarsi dentro e andare a scoprire le proprie paure, i propri sogni, la propria fragilità e debolezza, ma anche il proprio egoismo, la cattiveria che alberga in lui certe volte, e di tirare tutto questo fuori per creare un mondo e raccontare una storia tremando, gioendo e piangendo. In modo che il lettore leggendola, possa fare lo stesso.