Il giardino dei musi eterni, Salani
Bruno Tognolini è nato a Cagliari nel ’51, ha studiato al DAMS di Bologna nel ’79, e ora vive un po’ a Bologna, un po’ a Lecce, e un po’ in viaggio nei mille incontri coi lettori. Dopo un decennio di teatro negli anni Ottanta, è ormai da trent’anni autore ‘per i bambini e i loro grandi’. Ha scritto poesie, romanzi e racconti (quarantacinque titoli con i maggiori editori nazionali), programmi televisivi (quattro anni di Albero Azzurro e undici di Melevisione), testi teatrali, saggi, videogame, canzoni e altre narrazioni. È stato premio Andersen nel 2007 e nel 2011.
Il suo romanzo Il giardino dei Musi Eterni, finalista al Premio Strega, è stato nominato Libro dell’Anno 2017 da Fahrenheit, programma sui libri di Radio Tre (prima volta di un libro per ragazzi), e ha meritato il premio Liber miglior libro 2017.
Intervista all’autore
Ti ricordi qual è stato il primo libro che hai letto?
Ricordo bene il primo libro che ho sfogliato. Il mio adorato Libro degli animali, un grande antico librone illustrato che sfogliavo interminabilmente sul pavimento, con figure, numeretti e nomi in calce. Dopo essermi fatto leggere quei nomi dai grandi, e averli imparati, chiedevo noiosamente che me li interrogassero, non ne sbagliavo uno. E interrogavo noiosamente a mia volta chiunque mi capitasse a tiro, indicando le Bestie Mitiche col dito e domandando: cos’è?
Il primo che ho letto invece no, non lo ricordo. Si confondono in una nebbia leggendaria, lontana ormai sessant’anni, alcuni titoli: Incompreso, di Montgomery, Il piccolo vasaio di De Mattia, Michele Strogoff di Verne… Ma chissà qual è stato il primo. Tutti lo sono stati. Era la seconda alba incantata dei libri: dopo le Bestie, nei libri ci sono le Storie! Cominciava una stagione che non doveva finire mai più.
Perché e quando hai deciso di scrivere un libro per ragazzi?
Quando. Ho deciso di scrivere un libro per ragazzi dopo moltissimi anni che scrivevo poesie e storie e altre cose per me; dopo molti anni che scrivevo testi nel teatro per ragazzi; e dopo pochi anni che scrivevo copioni per L’albero azzurro. Per una puntata avevo scritto un racconto, era piaciuto, ne ho scritti accanto altri dieci, li ho spediti alla Fatatrac, ed è nato il libro Angeli, lucertole, bambini dappertutto. Era il 1992.
Perché. I perché sono tanti, diversi fra loro e lunghi da dire. Ne dico pochi e in breve, come esempio.
Per arrivare a tutti. I migliori libri per piccoli sono anche per grandi, mentre i migliori libri per grandi non sono anche per piccoli.
Per la bellezza del canto. Anche se il mio libro candidato al Premio Strega (e Libro dell’Anno 2017 a Fahrenheit) è un romanzo in prosa, io amo molto scrivere, e molto scrivo, in rima e metro, poesie e filastrocche: e per grandi non me lo lascerebbero fare.
Per guadagnarmi il pane. Perché quando scrivevo per il teatro fare teatro per ragazzi conveniva, gli spettacoli giravano di più. Questa è stata la prima ragione, casuale e pratica, tanti anni fa: che poi mi ha fatto scoprire tutte le altre.
Per la speranza del mondo. Perché così posso fare meglio, in un campo più sicuro dove i frutti crescono meglio, “il lavoro sporco della speranza”, di cui i grandi si vergognano, come di tante altre cose Utili e Belle.
Perché sì. Perché così, dato che scrivo per bambini, qualche volta, ora che invecchio, posso dare la risposta saggissima che sanno dare i bambini ai perché: “perché sì”.
Ci sono degli autori o un autore in particolare che hanno influenzato il tuo lavoro di scrittore?
Oh sì, tanti, e tutti in particolare: nel loro particolare.
Ariosto e Dante e Foscolo e Parini e Leopardi e Dylan Thomas ed Emily Dickinson e Thomas Eliot e tanti altri poeti che studio a memoria e dico camminando, per esercizio: perché la bella lingua deve cantare in versi, o non incanterà.
E poi Calvino e Vittorini, e Ortese e Ginzburg, e Celati e Meneghello, e Bufalino e Sciascia, e tanti altri a loro compagni: perché la bella lingua deve cantare in prosa italiana, o non incanterà.
E infine Asimov e Tolkien, Gibson del Neuromante e Lewis di Narnia, Ende e Pullman, Lindgren e Tove Jansson dei Mumin, e innumerevoli altri: perché la bella lingua deve saper raccontare storie, o non incanterà.
Raccontaci in breve una giornata tipo di quando scrivi.
Io scrivo molto a casa, quando sono a casa, come ora. Tutta la mattina, poi mangio, poi dormo, poi tutto il pomeriggio. Poi chitarra, o lettura, o PS4 (ma solo game di meditazione, senza sparare, e ce ne sono di stupendi). Poi cena, film, lettura, sonno.
Oppure scrivo in treno, perché sono sempre in viaggio, in giro per l’Italia a parlare coi lettori di libri e di incanti. Scrivo col computer dai lontani inizi, quando ero io solo in tutto il treno col mio laptop, e tutti mi guardavano. Scrivo col computer, dopo decine d’anni di stilografica Pelikan M400 e inchiostro Gunther Wagner grigio-blu: perché altrimenti non potrei scrivere con tante tantissime correzioni e ritocchi e ceselli, come mi piace fare; e perché altrimenti non potrei scrivere in treno.
E scrivo ahimè poche rime e poche storie, e moltissime mail per gli incontri in tutta Italia di cui sopra; molte risposte a chi mi scrive lettere o messaggi per ogni motivo; molti ragionamenti e articoli e interviste come questa. Insomma, molte cose che non sono né rime né storie. E a volte mi rammarico di questo, dico: peccato, se scrivessi solo storie!
Però accade che queste altre cose io alla fine le scrivo come se fossero storie e poesie: con tutto il tempo (ed è tanto) che ci vuole, e con tutto l’incanto che posso. Così non sono mai parole perse, e mi tornano sempre indietro da loro bellissimi doni. E quando poi viene il momento di fermare queste altre scritture, e arriva il tempo delle rime e delle storie, queste zampillano fuori fresche e scintillanti, perché hanno riposato, nell’attesa si son potute preparare.
Cosa ti piacerebbe che pensassero i lettori una volta terminato il tuo libro?
Stavolta basteranno tre parole. Mi piacerebbe che pensassero: “Peccato! Finito! Ancora!”
Che cosa consiglieresti a un tuo lettore che volesse scrivere un libro?
Consiglierei prima di tutto di non dar retta a ciò che consigliano gli scrittori agli aspiranti scrittori. Perché, se sono sinceri e generosi, consigliano cose che son state utili a loro, e non è detto che siano poi utili a tutti. Se non lo sono, danno consigli sbagliati apposta per fare sbagliare strada, perché non vogliono concorrenza.
Poi consiglio – ma questo è scontato – che leggano molto e scrivano molto: a scrivere si impara scrivendo, come per ogni altra arte.
E infine consiglio che cerchino, piano piano, libro dopo libro, la loro voce. Copiando e imitando all’inizio, se vogliono, perché questo serve, prepara, allena la voce. Scrivendo anche cose alla moda, o che richiede il mercato, o gli editori, ma sempre chiedendosi in fondo al cuore: sono io che sto scrivendo, o vengo scritto? Questo è ciò che mi piacerebbe leggere, come lettore? O ciò che piace al mercato? Io quando leggo incantato chi sono, il mercato? Sto scrivendo, sto cantando, sto incantando, o mi sono incantato?