Proposte

I libri proposti dagli Amici della domenica.

immagine per Valerio Aiolli, Portofino blues
proposto da:
Laura Bosio
«Leggo Valerio Aiolli da quando l’ho scoperto in Nero ananas, dove si è immerso nella nebbia lasciata dalla strage di Piazza Fontana, come se la nuvola di quell’esplosione non si fosse mai diradata del tutto, ricostruendo vicende e sentimenti dal 1969 a quel 1973, anni incandescenti della storia d’Italia che ne hanno cambiato il volto. L’ho seguito poi in Radio Magia al fianco dei suoi ragazzi, quattro adolescenti che crescono nel pieno degli anni Settanta, in un contesto storico complesso, segnato da profonde trasformazioni dell’ecosistema mediatico. E ho ritrovato felicemente la sua stessa voce chiara, l’ostinazione nel non indietreggiare davanti alle contraddizioni, ai dubbi, ai misteri del nostro paese in questo Portofino blues, che si addentra in un’altra indagine senza soluzione né pace come la scomparsa, nel 2001, della contessa Francesca Vacca Agusta, precipitata in mare dalla sua villa a Portofino. Un puzzle dove sembra mancare sempre qualche tassello per completarlo, fra amori e risentimenti, jet set internazionale e droghe, immensi flussi di denaro e ambigui amici, nei quali leggiamo, attraverso dichiarazioni, articoli di giornale e racconti a cuore aperto dei protagonisti, la vita di una donna ricchissima e controversa, alla fine prigioniera del proprio mondo, e insieme la storia industriale e politica che abbiamo vissuto nel periodo tra Craxi, Tangentopoli e Berlusconi. Le pagine di Aiolli hanno ogni volta qualcosa di insolito e per me coinvolgente: ad attirarmi credo siano la precisione dei suoi meccanismi narrativi e l’implacabile scavo interiore dei personaggi, spesso con raffinata ironia, la luce nuova sulla realtà, sugli attori, sui costumi, sulla nostra società in cerca di risposte e senso.»
immagine per Roberto Andò, Il coccodrillo di Palermo
proposto da:
Roberto Alajmo
«Se è vera la definizione di Dacia Maraini, secondo cui l’inferno è una Palermo senza le pasticcerie, Il coccodrillo di Palermo di Roberto Andò si configura pienamente come una discesa agli inferi. Il nostos del protagonista nella sua città d’origine è un vortice. Un abisso nel quale egli guarda, rendendosi quasi subito conto che l’abisso, allo stesso tempo, sta guardando lui. Fra le anime morte della città il lettore è portato a muoversi quasi in soggettiva, misurando gli enigmi che un padre ha seminato nella vita di suo figlio, trasformandolo poco alla volta in un investigatore riluttante. Se non fosse così intellettualmente fondato, il libro potrebbe somigliare a un poliziesco, ma le convenzioni del genere vengono circumnavigate senza mai sbarcare sulla terraferma, lasciando il lettore in perenne balia del malessere prodotto dal moto ondoso di una narrazione che non concede requie. E poi, naturalmente, c’è il grande portato letterario della Città. In questo senso Il coccodrillo di Palermo è anche un libro sul romanzesco che ha finito per inghiottire la città, e dunque sulle relazioni che intercorrono tra finzione e realtà. Questo ci dice la leggenda del coccodrillo, che l’autore elegge a paradigma del rapporto tra verità e menzogna. In una realtà divenuta fantasmatica e illeggibile solo la letteratura, insegna Leonardo Sciascia, può fare da bussola. Forse il protagonista sta cercando davvero ciò che confida al lettore: “la dissoluzione del passato, come nel tempo le cose si separano, si sciolgono, perdono la loro definizione”. Questo bellissimo e illuminante romanzo è una resa dei conti che riguarda un’intera comunità. E qui entra in gioco la memoria, il rapporto perverso che Palermo intrattiene con la memoria. Come nella Praga di Kundera, anche qui la lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio. Ma qui non sono passati i carri armati sovietici: c’è stata una invasione più subdola e pervasiva, quella del crimine, che ha prodotto la convivenza micidiale di cinismo, furbizia, opacità e reticenza. Leggendo il romanzo si capisce che Palermo non è una città dove l’eroismo si risolve nella semplice alternativa fra partire e restare. È una città metaforica in cui l’eroismo consiste nel tornare – casomai, quando ormai pensavamo di essere in salvo – per cercare di disinnescarla.»
immagine per Saba Anglana, La signora meraviglia
proposto da:
Igiaba Scego
«Nata a Mogadiscio da madre etiope cresciuta in Somalia e padre italiano, arrivato nell’Africa orientale negli anni ’50 per lavoro, Saba Anglana è un’artista poliedrica: attrice, cantautrice, narratrice di storie intrecciate tra mondi. Cresciuta a Roma e oggi residente in Piemonte, ha saputo trasformare la sua identità cosmopolita in un’arte che fonde linguaggi e culture. Negli anni ha condotto il suo pubblico attraverso i luq luq (vicoli) di Mogadiscio, il ventre pulsante di Addis Abeba, le pinete di Ostia e l’elegante compostezza di Torino. Nei suoi concerti, la musica si mescola alla narrazione, a memorie singolari e collettive, e persino alla riflessione sul significato delle parole, creando un’esperienza immersiva e densa di significato. Se Fairuz è l’usignolo del Libano, Saba è un usignolo senza confini, italiano, etiope e somalo. Un’artista che ha scelto di vivere oltre le frontiere, intrecciando appartenenze senza lasciarsi definire da esse. In La signora Meraviglia (Sellerio), il suo straordinario debutto letterario, questa tensione verso una molteplicità identitaria – che è al tempo stesso ricchezza e spaesamento – emerge con chiarezza. Il romanzo segue due fili narrativi e temporali come in un gioco di specchi, per accompagnarci a vedere l’universalità del tema dell’identità: da un lato, la storia di Nonna Abebech, rapita da un ascaro somalo, soldato al servizio degli italiani durante l’invasione coloniale dell’Etiopia, e poi abbandonata in Somalia, incinta, costretta a reinventarsi una vita: una storia, quella di Abebech, che ci fa vedere una complessità spesso taciuta da chi ha preferito tracciare linee semplici, buoni da una parte, cattivi dall’altra. Questa vicenda del passato ha un controcanto nella storia di strettissima attualità della cittadinanza: il percorso della zia Dighei, che dopo quarant’anni in Italia lotta per ottenere quel documento tanto agognato che – come suggerisce Saba – non basta tuttavia a riassumere un’esistenza, né la sua né quella di nessuno. La narrazione di Anglana richiama Gogol, Bulgakov ma soprattutto l’assurdo kafkiano, con il labirinto burocratico che ricorda Il processo: come Josef K, anche Saba e sua zia si ritrovano a navigare un sistema imperscrutabile (con molte informazioni sullo stato attuale dell’iter per l’ottenimento della cittadinanza in italia), dove regole e tempistiche restano opache, come se ottenere tale certificato fosse un’impresa mistica, la ricerca di un Sacro Graal. Ma l’autrice va oltre e invita il lettore ad affrontare con franchezza la questione identitaria, con uno stile insieme evocativo e ironico. Cosa significa davvero appartenere a un luogo: un pezzo di carta può contenere la complessità di un’identità nel mondo globalizzato? Quante vite stanno dentro una vita? Quanti demoni abitano una mente? Quante meraviglie si nascondono in ciascuno di noi? Attraverso un racconto che oscilla tra realtà e mondo spirituale, Saba Anglana ci invita a ripensare le etichette, a rifiutare identità rigide, a non incasellare l’esistenza. Con una scrittura cesellata e intensa, ci offre una vera e propria pedagogia della complessità – un insegnamento prezioso in tempi di polarizzazioni e semplificazioni forzate.»
immagine per Rossano Astremo, Nudo di padre
proposto da:
Francesco Caringella
«Lo faccio perché Nudo di padre incarna alla perfezione la lezione kafkiana secondo cui un vero romanzo è un colpo di piccozza che rompe il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Grazie all’empito universale che le percorre, infatti, le pagine di Astremo parlano, attraverso le gesta del protagonista, di ognuno noi, in un gioco magico e fascinoso di immedesimazione. Il lettore sente così, sulla pelle graffiata da una scrittura aspra e corrosiva, la frustrazione del rapporto mancato con il padre, la ricerca di figure maschili di riferimento, il mistero della famiglia, il potere delle relazioni, la fuga geografica e sentimentale e l’abbandono alla forza salvifica della letteratura. Nudo di padre è un autentico e profondo romanzo di formazione, un Bildungsroman che segue l’evoluzione del personaggio attraverso un percorso scandito da prove, errori, improvvisi capitomboli e miracolose resurrezioni.»
immagine per L'anniversario di Andrea Bajani
proposto da:
Emanuele Trevi
«È una storia eccezionale, quella di Bajani, che infrange un vero e proprio tabù: nelle prime pagine del libro incontriamo il protagonista che ci racconta dell’ultima volta che ha visto i suoi genitori, prima di voltare le spalle per sempre alla sua famiglia, disgregata dalla violenza del padre-padrone e dalla muta, disperata sottomissione della madre. Per delineare un’immagine credibile di questo inferno domestico e della fuga senza ritorno del protagonista, il narratore ricorre alle risorse del romanzo per mettere ordine nei dati dell’esperienza, spiccando quel salto mortale capace di condurlo dall’informità del “reale” alla consistenza e alla leggibilità del “vero”. Ed è solo così che una vicenda singola si trasforma in uno specchio in cui tutti i lettori possono intravedere qualcosa che non conoscevano direttamente, eppure li riguarda. L’anniversario è un romanzo avvincente e originalissimo, che colpisce chi legge come un pugno nella testa e nella pancia. Bajani non sente il bisogno né di condannare, né di perdonare, e ci racconta quanto sia impervia e necessaria la via del riscatto.»
immagine per Beatrice Beneforti, Martire a domicilio
proposto da:
Gabriele Ametrano
«Una foto può segnare il contorno della carne ma difficilmente tratteggerà i confini della mente. E sono quelle sfumature che fuggono alla vista che Beatrice Beneforti racconta e fotografa. Martire a domicilio (Castelvecchi) è esempio di come certa letteratura – a tratti canonica ma mai banale, difficile da comprendere ma mai sconosciuta – possa essere fuori controllo, assomigliare a una scheggia impazzita che non deraglia. La narrazione vive su piani opposti, in un costante bipolarismo in cui tempo, pensiero e pelle non trovano allineamento ma stupore e silenzio. Romanzo che racchiude il periodo della scrittura e attira a sé anche il passato e le sue invenzioni, il presente insipido e fragile, e il futuro bagnato di speranze. Sembra sempre andare fuori rotta ma poi sempre si riprende, torna a raccontare gli spazi e gli uomini con lucidità. Con una tempistica da orologiaia Beneforti riesce a curare il caos della mente, del cuore e del silenzio. Riesce a curare ma non a curarsi. Riesce ad accompagnare ma non a farsi trovare. Esordio maturo e folle che arricchisce il mondo letterario di un ruvido senso di consapevolezza: ognuno si salva solo se vuole salvarsi.»
immagine per Giorgio Biferali, Sono quasi pronto
proposto da:
Leonardo Colombati
«Ho trovato questo libro – in cui viene narrata in prima persona l’esperienza della paternità – un piccolo miracolo di stile. La nascita del primo figlio mette in moto ricordi e aspettative e cambia fatalmente tutti i rapporti, da quello coi genitori a quello con la compagna; ed è proprio quest’indagine su come siano sempre sfuggenti, mutevoli, condizionabili le relazioni, il centro segreto del libro. I luoghi sono l’ospedale (dove si nasce e si muore) e il “nido” (teca e prigione, per dirla con Proust), contrapposti al mondo di fuori, che tra pandemie e cambiamenti climatici sembra essere sfinito. E poi ci sono i libri: tutti quelli letti, e tutti quelli da scrivere – in una felice dialettica tra reale e immaginario, che poi sono le due sostanze di cui siamo fatti (la migliore letteratura è quella che, sotto traccia, trova anche il modo di riflettere su stessa).»
immagine per Michele Bitossi, Ma io quasi quasi
proposto da:
Daniele Rielli
«Una delle qualità migliori che può possedere un romanzo è la capacità di sedurre il lettore che ne sfogli per caso le prime pagine. Ma io quasi quasi di Michele Bitossi è un libro di questa specie, lo so perché il lettore rapito sono io. Ho trovato questo romanzo in mezzo a una pila di altri libri che mi erano stati inviati, ho letto quasi distratto la prima pagina, poi la seconda e alla terza ho capito che ci sarei caduto dentro. E infatti per due giorni ci sono tornato ad ogni occasione utile, già dispiaciuto per il momento in cui l’avrei finito. La storia, come sempre accade con i buoni libri, rende meglio nel romanzo che non raccontata in due righe, tuttavia eccola qui: un uomo, un padre, nella settimana che precede il momento in cui scoprirà se potrà ancora vedere sua figlia. Essendo io stesso diventato padre da poco tempo, un’eventualità del genere mi risulta terrificante; per fortuna nel mio caso è qualcosa di lontano, non è però così per migliaia di padri che vivono questo dramma nell’indifferenza generale, quando non nell’implicita condanna. Ma io quasi quasi tuttavia non è, per fortuna aggiungerei, un romanzo di denuncia: la spada di Damocle, per quanto drammatica, pende quasi silenziosa sulla testa del protagonista mentre questi cerca di stare lontano dalla cocaina, di scoprire qualche improbabile talento calcistico per la squadra di serie C per cui lavora e di non far naufragare la storia con la sua irosa – e divertentissima – nuova compagna. Qualcuno potrebbe sostenere che il protagonista di questo romanzo, nella sua rassegnata e autolesionistica passività, sia l’esatta rappresentazione dell’Uomo Occidentale odierno. Può darsi, non so. Quello che so, anzi quello che ho scoperto dopo aver finito il libro, è che Bitossi nella vita fa l’autore di canzoni e quindi sa maneggiare le parole, ma non aveva mai scritto un romanzo prima. Ha fatto in compenso un corso con Paolo Nori, che deve avergli insegnato bene. Bitossi ha uno sguardo brillante, una lingua con un’identità – ovvero una forma adatta all’opera – e il mondo del suo racconto è così preciso e dettagliato da mettere sotto una nuova luce quello in cui viviamo. Probabilmente per tutti questi motivi Ma io quasi quasi è un romanzo al tempo stesso letterario ed estraneo, contemporaneo e sincero, vitale e pieno di misura. Soprattutto, non ha addosso nessuno di quei freni e di quelle inibizioni convenzionali che affliggono tutti noi scrittori di professione, chi più chi meno. Forse anche per questo Ma io quasi quasi è una boccata d’aria fresca e sono felice di proporlo, per così dire a pieni polmoni, al Premio Strega.»
immagine per Giuliano Brenna, L’odore dei cortili
proposto da:
Franco Buffoni
«Giuliano Brenna con L’odore dei cortili ci consegna il romanzo della sua piena maturità stilistica. Ambientato nel Portogallo della transizione dalla dittatura alla democrazia, la bildung del passaggio dall’adolescenza all’età adulta del giovane Mattia assume una colorazione a tratti drammatica per la presenza di alcuni personaggi legati alla morente dittatura, come il capitano Green, che prima di suicidarsi riesce a coinvolgere il ragazzo in un rapporto sado-masochistico di estrema durezza. Un rapporto che tuttavia alla fine permette a Mattia di giungere alla conoscenza di sé e anche di comprendere il valore dell’amore che il coetaneo Nuno gli offre. Lisbona, con i suoi vicoli e i giardini dall’inconfondibile aroma, rappresenta lo sfondo pulsante che segna il ritmo della narrazione: “È l’odore che alligna, aspro e verde scuro, negli angoli in ombra di certi vecchi cortili e si espande con più intensità nei pomeriggi afosi e umidi. Non si attribuisce un nome a questo sentore, lo si vive, un attimo, con un leggero imbarazzo; resta addosso senza che ci se n’accorga, lascia una vaga sensazione di disagio, come quando una manica si impolvera o qualche batuffolo di lanugine si impiglia nei capelli”. Notevole nel romanzo il passaggio da immagini devastanti – capaci di rimandare al Salò-Sade pasoliniano, con il ragazzo tenuto come un cane al guinzaglio – alla disperata ricerca dei genitori scomparsi, all’aspirazione di Mattia a una sostanziale, catartica purezza.»
immagine per Vito Bruschini, I banchieri del diavolo
proposto da:
Laura Massacra
«L’opera di Vito Bruschini si presenta come un romanzo nel romanzo. Dalla costruzione raffinata e dal ritmo incalzante, ci conduce in parallelo in un racconto che si svolge nel XIII secolo e in una narrazione contemporanea mediante uno stile personale dai risvolti coltissimi e pervasi da una ricerca storica che consegna efficacemente al lettore una conoscenza approfondita delle origini dell’alta finanza a partire dalla fine del ‘700. I banchieri del diavolo riprende la storica trilogia di cui parla lo stesso Victor Hugo nella prefazione di L’uomo che ride e che, unitamente a Novantatré, nelle intenzioni dello scrittore avrebbe dovuto comprendere un terzo e ultimo romanzo dedicato agli oscuri legami tra monarchia e banchieri. L’opera, di fatto mai data alle stampe, prende invece vita nel romanzo di Bruschini attraverso il ritrovamento di uno scritto attribuibile al romanziere francese, negli archivi segreti del Vaticano, per mano della brillante ricercatrice Marion. E, passo dopo passo, l’incredibile racconto di Victor Hugo riverbera nel presente narrato, che ruota intorno a un misterioso omicidio e alle vicende private della delicata e complessa protagonista che ne ha fatto la scoperta. Appassionante fino all’ultima riga, attraverso una ricostruzione, immaginifica ma molto realistica, dei movimenti di fine ‘700 che hanno costruito le prime oligarchie finanziarie della vecchia Europa, il romanzo getta luce su quanto il nostro presente politico, sociale ed economico origini a partire dall’ascesa di grandi famiglie di banchieri senza scrupoli che ancora oggi ambiscono a sovvertire i delicati equilibri internazionali e a conquistare (se non lo hanno già fatto) il potere mondiale.»
immagine per Baracca e burattini di Dario Buzzolan
proposto da:
Massimo Gramellini
«Confesso di avere un debole per le storie familiari che incrociano la Storia, e quella di Buzzolan abbraccia un intero secolo (dal 1925 al 2025), attraversando quattro generazioni. Poi c’è la lingua. Limpida, letteraria, però mai compiaciuta. E non era facile, perché l’autore ha scelto di affidare il racconto a sei voci narranti (Eros, Emma, Elle, Ranieri, Tonino e Ada). I narratori si alternano – ora integrandosi a vicenda, ora rettificandosi, ora addirittura contraddicendosi – alle prese con il destino comune che pare segnare la famiglia, quello di “piantare baracca e burattini” e di andarsene sempre, da tutto e da tutti, si tratti di una scelta lucida e consapevole, di una costrizione, di una resa o di una fuga vigliacca. Dalla Resistenza al boom economico, dagli anni Settanta ai giorni nostri, i personaggi di Buzzolan – non semplici “funzioni” del plot, ma vere e proprie persone di cui pare possibile, pagina dopo pagina, sentire le emozioni – attraversano il secolo, i suoi sogni e i suoi orrori, allontanandosi continuamente dal proprio centro e continuamente tentando un ritorno che soltanto a uno di loro sarà consentito. C’è però un luogo capace di attrarli con costanza, una sorta di campo-base a due passi dal mare: la “Casa blu”, nata negli anni ’30 come baracca e cresciuta nel tempo fino a diventare dimora accogliente. È lei – autentico personaggio vivente – la testimone di tutte le loro scelte, degli amori, degli scontri, delle generosità e delle miserie. Soprattutto, è lei la custode – assai gelosa – del segreto che ha dannato l’intera famiglia e che, in pari tempo, potrebbe redimerla. Sono convinto che un’opera come Baracca e burattini, tanto geometrica e appassionata, tanto lucida e sconvolgente, figurerebbe degnamente tra i candidati al Premio di quest’anno.­­»
immagine per Cosimo Calamini, Ferro e ruggine
proposto da:
Roberta Mazzanti
«Ferro e ruggine coinvolge con grazia incalzante nelle peripezie di un “talentuoso bifolco”, tra gli stenti quotidiani del tempo di pace e le solidarietà preziose del tempo di guerra. Dalla Val d’Orcia “aspra e sinuosa” con i suoi campi simili a un mare giallo di spighe, dove i mezzadri “dovevano nuotare con forza, perizia e sudore” per sfuggire il “recinto magro della fame”, fino al gelido e scuro Mare del Nord si dipanano le vicende di Elio Marmugi detto Torsolo e di suo fratello Cordevole, detto Troncoduro. I nomi stessi dei due fratelli ne rivelano i caratteri e i destini: se Cordevole, il maggiore, “secco come un uscio e un’energia addosso da far invidia a un motore a vapore” è votato a mandare avanti il podere che sostiene la famiglia, Elio ha preso nome dal sole e perciò è destinato a star più vicino alle nuvole che alla terra. Svagato, paffuto e “morbido come un panetto di burro”, il bambino inadatto al lavoro dei campi è invece graziato da un innato e straordinario talento di disegnatore e pittore, che sbalordisce i compaesani e irrita il fratello; una vocazione precoce che, tarpata dalla miseria contadina, rischia di marcire in una fissazione che lo farà quasi ammattire. Per togliere dalla testa e dalle mani d’artista di Elio le “strullerie” e costringerlo a lavorare la terra, l’animoso Cordevole ricorre a metodi brutali: l’ostilità tra i due fratelli si trasforma in una ruggine dannosa che li spinge a gesti estremi, finché il mite Elio per disperazione si arruola nella Milizia e viene spedito in Libia a fare la guerra. In quell’ambiente di “polvere e rocce sparse, di arbusti volteggianti, di vento caldo, di poca acqua, di insetti sparsi, di cieli tersi”, lo smarrito ragazzo incontra per la prima volta la morte “a chili, anzi a quintali”, in un deserto dove “erano i vivi a essere strani e non i morti”. Là viene fatto prigioniero dagli inglesi per poi finire dopo un’interminabile navigazione in un campo di detenzione alle Orcadi. Sarà in questo luogo desolato, dove i prigionieri si sfiancano nel lavoro forzato, che Elio avrà l’inaspettata sorte di realizzare un capolavoro, affrescando una cappella eretta dagli italiani per volere di un maggiore inglese innamorato dell’arte rinascimentale. Conosciuta come “il Miracolo del Campo 60”, la cappella sull’isolotto di Lamb Holm esiste davvero, ed è tuttora monumento nazionale. Intorno a questo spunto reale ma tanto insolito da apparire fantastico, Cosimo Calamini ha messo a frutto le sue qualità di scrittore e sceneggiatore, intessendo un romanzo nutrito di passioni contrastanti eppure compresenti – di amicizie virili e tenerezze represse, di ostilità furibonde e pazienti attese, di fughe improvvise e fedeltà inossidabili, di lacrime reticenti e corpi più espliciti delle parole, di amori devastanti e risanamenti dolorosi. Un romanzo dove i luoghi sono espressivi quanto e più delle persone che li abitano, dove i legami sono stretti soprattutto tra uomini ma le donne sanno come scambiare con i loro compagni “quello sguardo al tempo stesso complice e distratto, pieno d’amore e di fatica di vivere”, capace di salvarli dal rischio che la loro natura di ferro sia corrosa dalla ruggine del rancore e della rinuncia.»
immagine per Tutto tra noi è infinito Nicola Campiotti
proposto da:
Giovanna Melandri
«Questo romanzo di formazione propone un’inaspettata prospettiva maschile alla forza incomprimibile del dolore quando chiede di essere ascoltato e trasformato. È il racconto coraggioso e coinvolgente di una crescita, di un bambino che diventa uomo e di una prova iniziatica e dolorosa che trova lo spazio della cura in una famiglia allargata, allegra, unita anche dopo la fine di un matrimonio e liberamente ispirata a quella dell’autore. Attraverso una scrittura intensa, ritmata e colta, pagina dopo pagina, il racconto ci incalza per un’urgenza segreta. Non c’è vicenda umana, anche la più dolorosa, che non conservi una luce, una verità. E questo romanzo d’esordio di Nicola Campiotti ci porta lì, in quello stato e in quell’attimo in cui, mentre tutto sembra crollare e dissolversi, il dono del perdono riesce a irradiare una trasformazione preziosa, umana e spirituale. Sorprende la delicatezza e la cura con cui l’io narrante maschile mette a fuoco una galleria di personaggi femminili. E così insieme a Teo, autore-protagonista, ci completiamo nell’osservazione del desiderio di conoscenza di un giovane ragazzo con il mondo femminile, in una relazione che costeggia intimità e verità. Auguro un grande successo a questo libro la cui eroina è finalmente una professoressa di Filosofia! Gli auguro di essere letto e apprezzato da tanti ragazzi e studenti. Il libro scorre toccando universali umani come l’amicizia, la violenza e il perdono di sé e dell’altro come presupposto di vita piena. Resta nel cuore la descrizione di una maschile stagione dell’adolescenza, un temporale in cui il mondo prende forma e il primo amore ha l’effetto di un incendio. Ma poi soprattutto c’è lei, La Maestra; una straordinaria e ruvida professoressa che obbliga i suoi alunni e noi lettori a recuperare una certezza troppo dimenticata. Non c’è IA che tenga: incontrare una Maestra, nella scuola che educa alla vita è il più grande dei doni. E dunque consiglio questo libro anche per consentirgli di raggiungere tanti ragazzi catturati dalla rete affinché cerchino e auguralmente trovino tra i muri della propria scuola una guida in carne e ossa dotata del medesimo potere maieutico della professoressa di Filosofia capace di trasformare nella libertà la vita di Teo. Questo romanzo avvincente ha il grande merito di illuminare la scuola e il suo ruolo fondamentale non solo nel rinsaldare il tessuto civile e democratico di un paese ma anche nel sostenere i ragazzi nel loro unico e speciale percorso di individuazione. Risalta il pensiero che la violenza contro le donne possa essere sconfitta solo da uomini capaci di fare dell’ascolto il proprio bagaglio principale per incontrare insieme il mondo, sé stessi e il femminile. Presento questo romanzo, ironico e profondo al contempo, nella convinzione che meriti di continuare il suo cammino verso un pubblico più ampio; per risvegliare in chi lo legge la potenza del desiderio e del perdono.»
immagine per Breviario delle Indie di Emanuel Canzaniello
proposto da:
Giuseppe Montesano
«Oggi i confini tra i generi si sono assottigliati fin quasi a sparire, e nascono ibridi strani. Non è un bene, non è un male, tutto dipende dalla qualità del risultato: e Breviario delle Indie di Emanuele Canzaniello è un ibrido che ha qualità. Il Breviario racconta il rovescio indicibile della conquista spagnola, e quindi europea, delle Americhe: a partire dal fatidico 1492 fino al secolo successivo. Canzaniello, con anarchica libertà da dettami storici o antistorici, fa salire in scena navigatori, soldati, re, banditi, preti, indios, regine, geografi, sognatori, vittime, filosofi, carnefici, cani, teologi, foreste, giuristi, scrittori. Così ci arrivano le storie del Colombo apocrifo e dei nativi apocrifi, le cronache dell’impavido e magnifico Las Casas e dell’incredibile avventuriero Cabeza de Vaca, del distruttore Pizarro e di quel De Soto che usava i cani per sbranare uomini e bambini, del distruttore Hérnan Cortés e dell’infame india la Malinche detta doña Marina che fu sua amante e tradì il proprio popolo, dell’osceno ideologo della legge del più forte Ginés De Sepúlveda e dell’almeno non ipocrita Diaz del Castillo che scrisse “siamo venuti qui per servire Dio e il Re, ma anche per farci i soldi”, dell’acuto ma ambiguo giurista De Vitoria e del luminoso Bernardino de Sahagún padre dell’antropologia. Ma queste storie ci arrivano volutamente a lacerti e frammenti, come rovine e macerie di storie: interpretate dalla voce dell’autore che interroga gli eventi, e interroga sé stesso e il lettore con una ossessività che svela come dietro la superficie apparente del saggista ci sia la furia del narratore che usa, come una sorta di lampada infera per entrare nelle tenebre del cuore umano, la metafora dello stupro e la sua realtà, la realtà del sesso come violenza ebbra di potere che il carnefice esercita sulla vittima. E il disastro che fu l’incontro tra l’Europa Cattolica e il Nuovo Mondo si mostra allora come una incomprensione unilaterale causata dalla disperata patologia dell’Occidente. A un mondo nuovo – che gli apparve nemico perché troppo vicino al suo stesso desiderio represso di un Eden sulla terra – l’Occidente vecchio applicò le sue regole mentali, le sue norme giuridiche e la sua visione della vita, attingendo a una ratio che si era modellata nell’unione della violenza idealizzata di Roma antica con la violenza ipocrita della fede al servizio di Cesare, e viceversa: una ratio che, attraverso la metamorfosi per cui l’Economia ha sostituito la cieca fede in Dio-Cesare e Cesare-Dio con la cieca fede nell’Algoritmo, è arrivata fino a noi. Nel Breviario Canzaniello muove la sua rabbia giovane ma non ingenua contro la radicale ingiustizia del più grande che mangia il più piccolo, del violentatore sadico che invoca un dio falsificato per fottere il prossimo con più godimento, della perversione incosciente di sé stessa che crede nel bene mentre fa il male, e distrugge i diversi da sé per lenire la propria impotente infelicità. E fa questo da narratore, perché non giudica, ma chiama in causa sé stesso e noi in quanto consciamente o inconsciamente oscuri a noi stessi e alle nostre brame. Breviario delle Indie mi appare, in questo Paese e in questo Occidente, un libro che deve essere letto. E non perché è un libro perfetto, ma proprio perché grazie a Dio è imperfetto: il prezzo da pagare per chi prova, in questo oggi soffocante, a uscire fuori dalla micragnosa imbellettatura e tolettatura del mainstream. Breviario delle Indie è aria viva che soffia nelle cripte dove marcisce la connivenza letteraria o pseudo-letteraria con un presente osceno e idiota.»
immagine per Ovunque andrò di Piera Carlomagno
proposto da:
Valeria Parrella
«Seguivo già da tempo la scrittura di Piera Carlomagno, ma con questo ultimo suo edito da Solferino, Ovunque andrò, di cui mi onoro anche un poco di aver inciso sul titolo (ne discutevamo, e a me sembrava molto bello, così sono stata davvero contenta che l’abbia scelto), mi sembra che lei sia arrivata a una altezza formale mai raggiunta prima. Non perde il gusto del mistero, della trama ben congegnata, che è la sua cifra, ma vi aggiunge una capacità novecentesca di descrizione, in particolare dei paesaggi del Meridione, di certe campagne che potevamo credere perdute per sempre, e invece esistono, dentro e fuori dai romanzi. E però insieme riesce a tenere il mondo contemporaneo dell’imprenditoria più azzardata, quello dei grattacieli e del capitale, per cui seguendo i personaggi, i dialoghi, pare quasi di vedere come da lì, dalla Lucania di Carlo Levi, si sia arrivati qui, a scriverci, oggi, al di là uno schermo. Lo fa attraverso la storia di Tania C., moglie di Raniero Monforti, direttore generale della divisione cinese di una prestigiosa azienda che aspetta da un pomeriggio alla mattina seguente la sentenza di un processo che la vede imputata per la scomparsa del marito, forse ucciso, forse precipitato da un grattacielo di Pechino. Così al tempo del romanzo, una notte di attesa, si intreccia il tempo lungo delle generazioni: cento anni di storia della famiglia di Tania, del nostro Sud e del nostro Paese. Terremoti, crisi economiche, fermenti politici: cose, queste, che conosciamo bene (benissimo, direi) tutti. Credo che sia un libro da far conoscere agli Amici della Domenica, e a quei lettori ai quali dovesse essere sfuggito e che hanno le antenne belle dritte su tutte le scelte che compie il nostro amato Premio.»
immagine per Poveri a noi, di Elvio Carrieri
proposto da:
Valerio Berruti
«Un’amicizia nata alle medie, in una scuola barese, dopo che uno dei due ragazzi viene picchiato a sangue da altri compagni e l’altro rimane inerte. Immobilizzato da una paura che lo inseguirà per sempre. Un’amicizia che vent’anni dopo diventa una storia di protezione e rimorso, raccontata con un linguaggio diretto, spesso implacabile nel libro d’esordio, “Poveri a noi” di Elvio Carrieri (edito dalla nuova casa editrice Ventanas), giovanissimo scrittore di appena vent’anni, poeta e musicista. È la storia di Libero e Felice, entrambi trentenni, uno professore di Lettere all’interno del carcere di Bari, l’altro ancora alle prese con l’ultimo esame di latino. Due perdenti, almeno all’apparenza, che fanno i conti con un passato che non smette di tormentarli, tra voglia di riscatto e perdono. Un libro profondo per le sensazioni che riesce a risvegliare, per l’ironia e il sarcasmo a volte snobistico dei dialoghi ma anche per la speranza che la cultura e le idee possano sempre salvarci. Un elogio alla nostra quotidianità. Come dice Carrieri: “Non esiste letteratura che non si nutra di uno che lava i piatti e svuota la Moka”. E come sentenzia Libero: “Io sono il prfssò, il pro­fessore, e il mio ruolo è mediare. Mediare tra vuoto e pieno. Mediare tra scuola e carcere. Parlo e basta, per automatismo. Ma almeno parlo. È già qualcosa”. E che se ne parli, dunque, di questo “Poveri a noi” e del suo giovanissimo autore che segnalo con grande piacere agli Amici della Domenica
immagine per Gino Castaldo, Il ragazzo del secolo o della rivoluzione perduta
proposto da:
Neri Marcorè
«È un’opera che con gli strumenti della letteratura ha il merito di far rivivere un’epoca cruciale per l’Italia e il mondo intero. Questo romanzo però non è solo un affresco, per quanto mirabile, degli anni Sessanta e Settanta, ma anche un percorso di formazione e una sorta di poema epico in prosa. E come tutti i migliori romanzi che rientrano in queste categorie non si sottrae al confronto con il male, con il fallimento, l’illusione, la lotta per la fedeltà agli ideali quando diventa facile tradirli.»
immagine per Sipario siciliano di Giuseppe Cerasa
proposto da:
Antonio Monda
«Presento con gioia e calore Sipario Siciliano di Giuseppe Cerasa, edito da Aragno, al Premio Strega 2025. È un memoir che riesce a essere potente e nello stesso tempo delicato, profondo e leggero, locale e universale, dimostrando quanto ha affermato Goethe nella frase scelta dall’autore in esergo: “L’Italia senza la Sicilia non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto”. Sipario Siciliano è anche un vibrante atto di amore per la propria terra che supera l’angoscia per ciò che l’affligge, a cominciare dalla mafia, colorandosi a volte di un’ironia amara e altre di orgoglio. Esemplari in tal senso il capitolo sull’immagine di Corleone e la celebrazione di chi si è rifiutato di chinare la testa, come Placido Rizzotto. Leggendo la rievocazione del quotidiano “L’Ora” mi è venuto spontaneo pensare ai fermenti del New Journalism di Truman Capote e Gay Talese, ma poi, grazie anche alla rievocazione struggente di afrori e sapori, mi sono reso conto che l’unicità di questo libro è nella riuscita mescolanza continua di tragedia e nostalgia, rimpianto e speranza, pessimismo e anelito di rinascita.»
immagine per La babilonese di Antonella Cilento
proposto da:
Sandra Petrignani
«Siamo nel 653 a.C., poi nel 1848, e ancora nel 1656. Non solo, sono passati quasi trent’anni ed eccoci nel 1683. Poi si torna all’800 e infine siamo nel nostro secolo. Stavolta Cilento passa con disinvoltura da un secolo all’altro, con consueta competenza storica, intrecciando storie e personaggi legati da quel filo segreto che alcuni chiamano mito, altri archetipo, altri semplicemente sogno. È partita da un’immagine – dichiara l’autrice – una bambina che porta una lucerna, una bambina salvifica piccola strega o maga, bambina fatata fermata nell’immaginazione pittorica e nelle leggende. Potete interpretarla come volete. A me piace leggervi una grande metafora della letteratura col suo valore salvifico per chi scrive e per chi legge. Anche perché Antonella Cilento è una narratrice che con ostinazione e originalità continua a combattere per un’idea di romanzo insensibile al facile e all’ovvio. Per questo non è semplice riassumere La babilonese e oltretutto non renderebbe giustizia al libro soffermarsi sugli intrecci della ricchissima trama. È un racconto denso di misteri e di indovinelli che cita la scrittura cuneiforme come i fumetti. È un invito a compiere un percorso, antico come l’arte e nuovissimo come un videogioco, guidati dalla vena serissima e insieme giocosa di questa sempre sorprendente scrittrice napoletana.»
immagine per Riccardo De Gennaro, Il quarto piano
proposto da:
Leopoldo Fabiani
«Un Bartleby bibliofilo, un Oblomov letterato, un Cosimo Piovasco di Rondò che invece di salire su un albero scende le scale di una libreria. Giorgio, il protagonista del libro Il quarto piano di Riccardo De Gennaro, è un uomo che a cinquant’anni non ha amici, non ha un lavoro, abita con i genitori. Si potrebbe dire che si è negato alla vita. E invece sente di vivere autenticamente nei libri, nei romanzi, di tutti i tempi e di tutte le letterature. Potrebbe fare sue le parole di Ingeborg Bachmann trovate in Malina: “No, non prendo droghe, prendo solo libri, veramente ho anche delle preferenze, molti libri non mi fanno bene, certi li prendo solo il mattino, altri soltanto la notte, ci sono libri che non lascio mai, vado in giro con loro per la casa, li porto dal soggiorno alla cucina, li leggo in piedi nel corridoio, non uso segnalibri, non muovo la bocca nel leggere”. La vita di Giorgio è nel romanzesco finché, in questo romanzo sorprendente, il romanzesco non fa irruzione nella sua vita. La scrittura limpida e ironica di De Gennaro ci conduce a vagare tra capolavori, con un occhio particolare ai libri che parlano di libri. E ci lascia aperta la domanda classica: i libri sono una gabbia o sono la libertà? La letteratura è dannazione o salvezza?»
immagine per Federica De Paolis, Da parte di madre
proposto da:
Giancarlo De Cataldo
«È la storia dell’amore imperfetto di una madre per una figlia, e dell’amore spaventato di una figlia per una madre alla quale teme di assomigliare ogni giorno di più. Perché è proprio questa progressiva immedesimazione la radice di ogni disagio, e nello stesso tempo la fonte di ogni illuminazione, dell’arduo, contraddittorio percorso destinato a traghettare un’adolescente nel caos dell’età adulta. Vorrei essere come te e vorrei essere tutto ciò che tu non sei. Non sarò né l’una né l’altra cosa, forse non sarò nient’altro che la sintesi di tutto ciò che ti e mi manca. Un’omissione. Il romanzo è in prima persona. Alterna momenti lirici, brani da classico memoir, e folgoranti squarci umoristici. Accompagna attraverso gli anni, e una tormentata analisi, l’evolversi di un rapporto che non conosce vie di mezzo, ma solo estremi: la più grande felicità, la più nera terra desolata. Nei passaggi più felici si fa strada una prepotente, ribalda ironia che si trasforma in anarchica ribellione contro gli stereotipi della fragilità e della svenevolezza. Ne deriva un ritmo che non ti dà tregua, ti sorprende, ti strappa applausi a scena aperta. Da parte di madre è un romanzo che rivela come tenerezza e sensualità non debbano necessariamente degenerare in vittimismo e svenevolezza, e come forza non sia necessariamente sinonimo di brutalità. Queste due donne hanno qualcosa di eccessivo, di irrisolto, di perturbante. Ed è per questo che le amiamo, e le sentiamo così simili a noi. Per tutte queste ragioni propongo questo romanzo. E anche perché persino un maschio, grazie a queste pagine, può illudersi di capire quelle due o tre cose in più “a proposito di lei”.»
immagine per Anna Di Cagno, L’anno della garuffa
proposto da:
Ilaria Catastini
«Gli anni di piombo, una provincia del Sud Italia intrisa di contrabbando, speculazione e violenza, famiglie con relazioni coniugali disintegrate, assuefatte alla sete di denaro e potere. In questo contesto due giovani donne, una adolescente e una aspirante giornalista, si misurano con un caso agghiacciante di cronaca: un bambino, figlio di un facoltoso uomo d’affari, viene rapito proprio nel giorno del rapimento di Aldo Moro. Il biliardo all’italiana e il suo tiro a effetto più difficile, la garuffa, che inverte la traiettoria prevedibile di una biglia e cambia lo scenario sul tavolo da gioco, è la metafora di due eventi – l’esecuzione dello statista e l’epilogo del rapimento del bimbo – che cambiano il corso della storia del Paese e di tante storie individuali e che segnano, entrambe, la perdita dell’innocenza e lo scontro con una realtà di tradimento e omertà. La scrittura di Anna Di Cagno riesce a rendere efficacemente, con il suo stile giornalistico essenziale, le atmosfere sociali e quelle interiori e le dinamiche anaffettive dei rapporti. L’autrice interpreta con una lettura profonda e precisa lo stato d’animo di una umanità avvilita dalla perdita di valori e dall’assenza di amore.»
immagine per Pier Paolo Di Mino, Lo splendore
proposto da:
Saverio Simonelli
«Sono tre le parole chiave per accedere al mondo di Lo splendore. L’infanzia di Hans, romanzo di Pier Paolo Di Mino. La prima parola è “arazzo”: non affresco, perché anche l’arazzo lo vedi steso su una parete, eppure quei colori sono meno orgogliosi di sé, ma misteriosamente e vicendevolmente dipendenti. Basta guardarlo da dietro un arazzo per scoprire un intreccio di fili che li collegano quei colori: ogni legame è indispensabile per la tenuta del tutto. E così è nel romanzo di Di Mino, pervaso dall’idea del legame tra creature dove ogni parola, ogni gesto è decisivo anche per chi si trova a centinaia di pagine di distanza. I personaggi emergono sulla scala del tempo: troviamo Rosa, madre di Hans, ingenua e spirituale; Hermine, donna selvatica e guaritrice; Joseph, candido socialista utopista, ma tutti compiono azioni che si riverbereranno sulla vita di questo bambino destinato a qualcosa di grande, benché nulla lasci presagire un tale destino. La trama della storia è quindi un insieme di relazioni, per cui ogni personaggio che partecipa al destino di Hans è in sé un romanzo e una porta inconsapevole verso altro, come nella figura demoniaca di Gustav, che nella sua perversa malvagità concorre comunque al bene. La seconda parola è “ritmo”: perché colpisce alla luce di una prosa così raffinata e di un lessico di rara appropriatezza, l’andatura da narrativa popolare. Di Mino sa indossare alla perfezione i panni del cantastorie lasciando rotolare eventi e situazioni sulle pagine per il gusto sia del racconto sia del suono: storia e ritmo, infatti, concorrono all’idea di un testo che costruisce un mondo che ha un senso perché come ricorda Seamus Heaney in uno dei suoi saggi di Oxford, quando una rima o una semplice giustapposizione tra parole suona bene, il poeta è già dalla parte della vita ed è contro la morte. La terza è “rinascimento”: anche se guardando agli avvenimenti e alla trama l’accostamento parrebbe azzardato. E invece, ambientato tra fine Ottocento e inizio Novecento, il romanzo prescinde dai tormenti dell’epoca, né guarda nostalgicamente a qualche “mondo di ieri” per costruire invece una realtà come segno, come via, fisica e spirituale assieme, verso un altrove. Ecco perché ogni situazione e ogni personaggio sono circondati da un’aura fatale, mai nulla è irrilevante e i simboli sono incarnati. Se è vero che il romanzo può essere letto come un arazzo di combinazioni inavvertibili a prima vista ma perfettamente coese, le immagini prendono a modello la pittura di Caravaggio, artista che come nessuno mai ha espresso lo spirito nel corpo comunicando non concetti, ma immagini che ci fanno sentire come l’odore di tutte le cose. Ed è il tentativo perfettamente riuscito di L’infanzia di Hans
immagine per Il vero nome di Rosamund Fisher di Simona Dolce
proposto da:
Filippo La Porta
«Il vero nome di Rosamund Fisher (Mondadori) di Simona Dolce è un romanzo teso, intenso e raggelato, basato su accurata documentazione storica, che racconta la biografia della figlia di Rudolf Höss, comandante ad Auschwitz: prima bambina nella villa “spettacolare” accanto agli orrori del campo, poi in fuga verso la Spagna (dove farà la modella) e infine negli Stati Uniti per cominciare un’altra vita. Qui la ritrova un giornalista, lei accetta di incontrarlo e di raccontarsi. È in parte la stessa storia della Zona d’interesse, film premiato a Cannes e ispirato a un libro di Martin Amis, ma pensata e realizzata da Simona Dolce parallelamente e attingendo anche ad altre fonti. Rispetto al film, rigoroso e asceticamente piatto, l’autrice mette al centro lo sguardo della bambina – tremante, stupito, l’unico che si interroghi criticamente – mostrandosi così più empatica e impegnata in una introspezione psicologica. Il mantra paterno rivolto alla figlia – “le cose che accadono di notte non accadono” – è l’invito sinistro a una rimozione che dovrebbe proteggere il falso idillio di quella “vita felice” ai confini del Lager. Ritmo avvincente del racconto e interrogazione sulla ordinarietà del male si tengono in ogni pagina: fallacie della memoria, nuda resistenza dei “fatti” a ogni manipolazione, attrazione del sadismo (il diritto del potere all’impunità), conflitto tra affetti e giudizio morale, identità come recita ingannevolmente liberatoria (“siamo tutti anche qualcos’altro”, le dicono in Spagna dove lei pensa a sé in terza persona, come se fosse un’altra). Unica utopia è il bucaneve che in inverno annuncia la primavera, con i suoi petali bianchi “imbevuti di una goccia di sole”: una utopia che neanche Primo Levi voleva escludere nei regimi fondati sul terrore. Non si tratta solo di un romanzo, immaginativo e documentatissimo, sulla Shoah. La sua narrazione preme, ansiosamente, sulle nostre coscienze. Anche noi, benché puntualmente informati su ogni evento del presente, viviamo dentro i nostri confortevoli stili di vita davanti a un muro invisibile che ci protegge dalle grida lontane intorno a noi e dalla cenere della Storia.»
immagine per Tiziana D’Oppido, Dodici
proposto da:
Ignazio Marino
«I punti di forza di questo romanzo sono la scrittura brillante, leggera e divertente e una protagonista non convenzionale che accompagna il lettore in un viaggio nel cuore dell’artigianato e dell’imprenditoria italiana, fatta di talento e passione. La narrazione è realistica e lascia al lettore il suggestivo potere dell’immedesimazione nei personaggi e nei luoghi, regalando sorrisi e leggerezza. La capacità descrittiva dell’autrice ci presenta una Trieste a tratti misteriosa, forse poco conosciuta soprattutto alle nuove generazioni che si avvicinano alla letteratura contemporanea. La storia ci conduce in quelle strade, nei caffè e di fronte a tramonti mozzafiato che fanno immergere il lettore in un’avventura divertente e a volte intricata, che ci pone di fronte ai diversi profili dell’animo umano. Amicizia, passione, senso di rivalsa, fiducia e delusione condiscono il dipanarsi della vicenda che vede Ester, la protagonista, al centro di una ricerca necessaria per arrivare al successo internazionale nonostante i suoi quasi settant’anni. Dodici, l’opera di Tiziana D’Oppido, è un romanzo divertente e appassionante che ci ricorda che non è mai troppo tardi per fare i conti con sé stessi e inseguire i propri sogni.»
immagine per Corallium di Paola Fabiani
proposto da:
Marcello Rotili
«Non è solo un thriller, come sembra in apparenza, il nuovo romanzo di Paola Fabiani che ambienta nella splendida Firenze di Cosimo I dei Medici, duca dal 1537 e primo Granduca di Toscana dal 1569 alla morte nel 1574, la complicata e per tanti versi penosa vicenda umana di Leone Degli Innocenti, in realtà Leone Rinaldeschi, erede ripudiato alla nascita, per le sue deformità, di una rispettata famiglia di orafi. Consegnato dalla madre, che morirà mettendo al mondo il secondo figlio, Andrea, alla ruota dello Spedale degli Innocenti con la dotazione di un panno sul quale è ricamata la R dei Rinaldeschi e un ramo di corallo, pregiato elemento in uso nella bottega di Tommaso Rinaldeschi, padre del piccolo. Quest’ultimo verrà allevato come un figlio da Suor Lucilla che gli darà il nome di Leone, quale auspicio e viatico per una vita che, da adulto, lo stesso Leone avrebbe dovuto affrontare con grande forza d’animo per affermarsi, nonostante i suoi handicap. Il romanzo si segnala per l’abile costruzione narrativa, per la sua intensità che lo rende avvincente e per la finezza dell’analisi psicologica, tanto da apparire meritevole, a mio avviso, di essere segnalato ai fini della selezione per il Premio Strega 2025.»
immagine per Leuta di Mario Falcone
proposto da:
Gianpiero Gamaleri
«Leuta è una piccola isola, un “rigurgito di terra e sassi di origine vulcanica” nel Mediterraneo, tra Malta e Lampedusa, e rappresenta il luogo immaginario di nascita, di crescita e infine di ritorno del protagonista. Il rapporto tra isola e continente domina anche l’esperienza umana e letteraria di Mario Falcone che non si appaga della sua origine siciliana ma avverte prepotente il bisogno di un’ulteriore isola della fantasia in cui collocare la sua narrazione, con la dimensione del sogno ma anche con quella del travaglio interiore e del dolore di fronte ai più diversi accadimenti della vita. Una considerazione a sé merita la scrittura di questo romanzo, che riflette efficacemente il suo lavoro di soggettista e sceneggiatore di importanti pagine di fiction televisiva nonché di opere cinematografiche. La sua tecnica espressiva gli consente di tenere avvinto anche sulla pagina scritta il lettore con la forza di sequenze visive e letterarie che vanno da efficaci immagini descrittive al ricamo di più sottili stati d’animo del protagonista e dei personaggi che gli fanno da cornice.»
immagine per Il figlio di Forrest Gump di Angelo Ferracuti
proposto da:
Lorenzo Pavolini
«Presento all’edizione 2025 del Premio Strega il romanzo di Angelo Ferracuti Il figlio di Forrest Gump (Mondadori) perché restituisce ai rapporti familiari, con il loro carico di attrazione e repulsione, il valore di una riflessione pubblica. Il romanzo di formazione di un giovane uomo che non riesce a gestire rabbia e ansia, diventa un commovente reportage – genere che Ferracuti pratica da decenni con maestria – degli ambienti dove è cresciuto e che è sul punto di abbandonare proiettandosi all’esterno alla ricerca di una riconciliazione fuori tempo massimo – o almeno un contatto, che può avvenire solo nello spazio della letteratura. Tenuta mentale, determinazione, solitudine appartengono alla scrittura come alla corsa sulle lunghe distanze e accomunano Angelo Ferracuti e il padre Mario; un padre che poche ore prima di morire, con un filo di voce, ribadisce il desiderio che il figlio con cui si è sempre scontrato scriva di lui. Il figlio di Forrest Gump è il nomignolo che alcuni amici hanno affibbiato ad Angelo per via di questo padre che a un certo punto della vita si è messo a correre e sembra non fermarsi più, diventando il terzo italiano per maratone percorse, arrivando a marciare per 48 ore no stop (303 km). Ne nasce un racconto intimo e senza sconti alla già poderosa automitologia paterna. Il romanzo di Ferracuti è l’autobiografia di un’epoca, l’interrogazione di cosa resta dello scontro generazionale vissuto nel ring di molte famiglie negli anni Settanta, l’urto del pragmatismo borghese democristiano e cauto dei padri contro lo slancio irruento dei figli come Angelo che partecipavano ai movimenti anarchici della sinistra, ordine e chiusura opposte a caos e apertura, capelli corti per non sudare troppo nella corsa contro capelli lunghi da ribelli, corse nelle strade contro proteste nelle piazze, un contrasto implacabile che ha plasmato il Paese e non è ancora sopito.»
immagine per Roberto Ferrucci, Il mondo che ha fatto
proposto da:
Claudio Magris
«Vivere è pericoloso; chi vive muore. Ci sono dei gesti che talora accompagnano una sensazione precisa, quella secondo cui i giochi sono fatti. Si potrebbe, certo, cincischiarsi con quei giochi già fatti, continuare ad esempio un lavoro di catalogazione, per il quale c’è sempre posto. Ma se i giochi sono fatti, cincischiare con essi serve poco, come pur vorrebbe ogni educato maniaco, convinto che le cose esistenti facciano appunto questo, esistere, esserci, per quanto dubbio sia questo ruolo. Ma il narratore sa sempre quello che deve fare. Una domanda che non potrò mai dimenticare me l’ha fatta parecchi anni fa Daniele Del Giudice. Una domanda su un libro che avevo scritto e che riguardava in senso forte la mia vita più vera. Come accade nella maggior parte dei casi si può lasciar perdere e far finta di ignorare ma un vero scrittore sa che parlare può essere talora un comandamento. Il mondo che ha fatto di Roberto Ferrucci è un grande libro all’insegna di questo imperativo categorico e si può – si deve? – parlare di tale tema, perché è per questo che ci è stata data la parola o meglio quella parola, e non un’altra. Leggendo il libro si entra in un’officina del romanzo, in cui le varie situazioni narrative e le diverse figure scivolano come le parole del romanzo stesso, in un susseguirsi di eventi che si fondono nella narrazione. Roberto Ferrucci ha il dono del vero scrittore, la familiarità con gli oggetti e le situazioni che la vita ci pone davanti, la concretezza dei dettagli, la fedeltà alle proprie mani e la presa di distanza, i colori della vita, lo smarrimento confuso davanti a quest’ultima. La soggettività è compenetrata dagli oggetti, cimeli cicatrici sogni di una lunga vita, parole ricordate e rimaste nell’aria delle case e delle strade; il primo manoscritto dato da leggere all’amico, la diffidenza delle descrizioni, la preoccupazione di risarcire il lettore che conosce già quei testi. Non so se e quali autori Ferrucci abbia preso a modello; mi chiedo se possano essere L’educazione sentimentale di Flaubert, libro dei libri per chiunque da giovane sogni di scrivere il romanzo della sua vita e della sua generazione e forse non sa, non osa dirselo sino in fondo, le Lettere di Calvino, l’intersecarsi di rapporti personali, solitudini e battaglie editoriali. Il mondo che ha fatto sembra spesso rovesciare i pareri e le impressioni come in una partita a carte. Per diversi motivi – non ultimo l’amicizia che mi lega a Daniele Del Giudice –  credo che questo bel libro di Roberto Ferrucci abbia tutti i requisiti per essere proposto al Premio Strega 2025.»
proposto da:
Ottavia Piccolo
«Patrilineare. Una storia di fantasmi di Enrico Fink (Lindau) è un originale intreccio fra autobiografia e storia familiare, in cui la personalissima vicenda “di formazione” del giovane Elias finisce per abbracciare i grandi temi della storia del ‘900 italiano. Ciò che mi ha affascinato da subito è la qualità della scrittura, del linguaggio: anzi, dei linguaggi, dato che il romanzo si muove sapientemente fra registri diversi, sempre guidato da un’ironia a tratti spiazzante, ma capace di condurre il lettore verso il cuore del racconto. Così le (dis)avventure di un giovane musicista che suona il flauto fra procaci cubiste in allucinanti discoteche finiscono per trasportarci fino alla Gorizia della Prima guerra mondiale, e poi alla Ferrara ebraica all’epoca delle persecuzioni nazifasciste, per poi tornare ai giorni nostri e affrontare quella che è l’urgenza del narratore, il rapporto fra la memoria e una identità da costruire. Fink si muove fra riferimenti letterari espliciti (Bassani su tutti, citato più volte nel romanzo) e sotterranei, giocando con stili e tecniche narrative, ma senza mai perdere di vista l’obiettivo del romanzo, e il suo centro emotivo, ovvero l’infanzia in clandestinità del padre dell’autore, il critico Guido Fink, mentre la sua famiglia veniva inghiottita dalla furia nazifascista. È un romanzo che trovo bello e anche forse necessario in quest’epoca di conflitto, una rilettura in chiave attuale delle memorie familiari, delle tradizioni, del peso delle identità trasmesse, nel tentativo di costruzione di un futuro individuale e collettivo.»
immagine per Mariagloria Fontana, Vieni dal buio
proposto da:
Alfonso Celotto
«Il romanzo è un colto esperimento linguistico per raccontare l’abisso umano. La scrittura dura, pungente, a volte simile a una macchina da presa in piano sequenza, esplora la vita, le cadute, i vortici mentali, la morte morale dei suoi protagonisti, per tutto il romanzo in bilico con la propria coscienza. La chiave è forte e originale: non esiste autentica conoscenza se non passa attraverso il corpo, le pulsioni del corpo, il sé sessuale dei protagonisti. Paolo e Nora stanno per sposarsi (echi di Goffredo Parise, soprattutto dell’Odore del sangue e dell’Assoluto naturale), trasudano in questo scenario borghese. Entrambi vivono una storia parallela con Leila e Max, e soprattutto per Nora è talmente forte da ridefinire la propria identità. La trama è fatta di noia, male di vivere, difficoltà a creare relazioni autentiche, scevre da ipocrisie e tradimenti. Anzi, il tradimento sembra l’unica condizione umana per tenere tutto insieme. L’ordito caratterizza la psicologia dei suoi personaggi, ci mostra la vertigine in cui cadono di volta in volta, in qualche momento appaiono quasi salvi, recuperati, sembra quasi volerne aggiustare la storia. Ma non accade. Nel tradimento i quattro protagonisti ravvedono l’unica verità e un possibile equilibrio. Il sesso è il detonatore che fa deflagrare tutti gli intenti, i ruoli, le emozioni e, infine, i sentimenti. La pelle, la carne sono l’espressione comunicativa più alta dei personaggi, tutti fragili sull’orlo dell’abisso. “L’innocenza non è una caratteristica confacente all’amore, perché l’amore contiene in sé troppa violenza” – scrive Mariagloria Fontana, nelle pagine finali. “Gelosia, rabbia, talvolta competizione, livore e chissà cos’altro”. Certi di abitare nell’assoluto del sesso, non vivono che nella certificazione della loro morte (forse non solo morale). Lo stile ondeggia: a tratti, ricercato, raffinato, in altri volutamente più crudo, scarno, per raccontare la più difficile delle sfide: raccontare il sesso. Non c’è redenzione negli spettri che si avvicendano sullo sfondo della storia: i lutti di Max, i fantasmi di Napoli, una città esoterica, al crepuscolo, mortifera. Parigi non è che un’illusione per facoltosi turisti in cerca di Hemingway e F. Scott Fitzgerald. Roma, la Città eterna, è immobile, stanca, distante, ferma, niente può cambiare ed evolversi. Non si prova empatia per i quattro personaggi: Nora, Max, Paolo, Leila. Mariagloria Fontana non lo vuole e ci mette tutti davanti come in uno specchio fra limiti umani, caducità e cristallizzazione del desiderio.»
immagine per Aqua e tera di Dario Franceschini
proposto da:
Romano Montroni
«Dario Franceschini è un autore di grande sensibilità ed eleganza. Il suo Aqua e tera è un romanzo storico potente ed emozionante, ambientato tra la fine della Prima guerra mondiale e il secondo dopoguerra nella provincia ferrarese, insanguinata dalla lotta tra i braccianti socialisti e i fascisti pronti a tutto per conquistare il potere, fiancheggiati dai proprietari terrieri. Storia, politica, famiglia, amore, lavoro sono alcuni dei temi che si intrecciano nella narrazione, con personaggi memorabili attraverso i quali prende vita tutto un mondo: si parte dal passato per arrivare alla modernità, tra speranze, delusioni, violenze, sogni. E intanto si rinnova la memoria della lotta antifascista in un appassionato racconto civile. Protagoniste sono le donne: in campagna come in città, non sono libere di amare, di studiare, di costruirsi un futuro che non sia quello di moglie e di madre. Ma non si arrendono: tenaci e solidali, lottano in segreto perché almeno le loro figlie possano un giorno seguire le proprie inclinazioni sfuggendo al ruolo che la società vorrebbe cucire loro addosso, e così farsi strada in un mondo che non sia soltanto – come si dice nel titolo – “aqua e tera”.»
immagine per Katia Fundarò, Familienalbum
proposto da:
Riccardo Cavallero
«È il 1996 quando, a seguito di un incidente di volo, un padre e una madre si ritrovano al capezzale del loro figlio Julius. Sono passati vent’anni di silenzi e incomprensioni, nel corso dei quali ciascuno dei due ha contribuito a modo proprio ad accompagnarlo verso l’età adulta: il padre convinto del valore assoluto della libertà, la madre al contrario certa che siano le regole a essere il fondamento della società e dell’educazione. Familienalbum (Ischìre) è questo: un album familiare costituito da istantanee messe in fila una dopo l’altra, in cui il divorzio e il successivo affidamento del figlio conteso sono solo un pretesto per attraversare la storia della Germania bellica e post-bellica, affrontare i traumi che, per dirla con l’autrice, ciascuno porta come un “testamento cucito sottopelle” e che condizionano il nostro modo di metterci in relazione con l’altro e parlare del tema della verità. Attingendo alla memoria della sua famiglia, attraverso una lingua poetica e personale che si appoggia sui distinti punti di vista dei tre protagonisti, Katia Fundarò consegna un romanzo d’esordio convincente, a metà strada tra il memoir e il romanzo familiare, che ho il piacere di presentare.»
immagine per Deborah Gambetta, Incompletezza. Una storia di Kurt Gödel
proposto da:
Claudia Durastanti
«Ogni tanto, nella letteratura italiana contemporanea, arriva una scrittura che si assume una responsabilità precisa: coniugare la ricerca con la sorpresa. È la prima affermazione che posso fare su Incompletezza di Deborah Gambetta, un complimento ammirato e schietto verso la sua capacità di riflettere, nel movimento elicoidale su cui si avvita il suo romanzo – la storia di un matematico ineffabile come Kurt Gödel e la «crisi» d’amore della voce narrante, che come tutte le pene d’amore degne di nota è anche una crisi ontologica e di pensiero –, un altro movimento che dovrebbe far parte di qualsiasi scrittura che aspiri a essere significativa e a durare nel tempo. E cioè il movimento appassionato tra lo studio, la filologia delle storie, per farla breve il senso del mondo, e le particelle buie di cui è fatto un personaggio. Che resta personaggio anche quando racconta qualcosa di intimo e personale: Incompletezza non si dimentica questo principio fondamentale, e si chiede cosa ci tiene insieme a partire dalla contemplazione di qualcosa di apparentemente lontano, e soprattutto a partire dal linguaggio.»
immagine per Un pezzo alla volta di Michele Gambino
proposto da:
Carlo D’Amicis
«Stimolato da libri in questo senso esemplari (la lista è lunga, e va da Se questo è un uomo a Come d’aria di Ada d’Adamo) si riaccende ciclicamente il dibattito intorno al confine tra romanzo e memoir, o più in generale tra la forma letteraria e le scritture altre. Un confine destinato ad assottigliarsi e a scomparire del tutto quando ci ritroviamo davanti a un vissuto importante, radicale, e a una voce potente in grado di raccontarlo. È questo il caso di Un pezzo alla volta di Michele Gambino, giornalista siciliano in prima linea nella lotta alla mafia negli anni più sanguinari di Cosa Nostra. Se il principale nemico da sconfiggere nella guerra contro la criminalità organizzata è l’omertà, le denunce coraggiose, puntuali, di Michele Gambino e dei suoi colleghi del mensile “I siciliani” durante i caldissimi anni Ottanta (denunce che non arretrarono nemmeno di fronte all’uccisione del direttore Giuseppe Fava) rappresentano un vero e proprio atto di eroismo. Si potrebbe a lungo discutere se davvero i paesi beati sono quelli che non hanno bisogno di eroi, ma ciò che più conta, in un contesto come quello del Premio Strega, è il corto circuito che si viene a creare nel libro di Gambino tra la coscienza civile (che spinse di fatto lui e tutta la redazione del “I siciliani” a una temerarietà incosciente) e l’antiretorica della sua lingua: un corto circuito che genera a tutti gli effetti una partitura letteraria. Contribuisce non poco a questo risultato la pietas, così profonda da permettersi di essere talvolta scanzonata, dello sguardo di Gambino: la letteratura in fondo ha un unico argomento – l’umano – e in questo cerchio l’autore di Un pezzo alla volta riesce a far rientrare perfino la disumanità del nemico, rivelando il volto squallido, meschino, tragicamente banale, della violenza mafiosa. Leggendo le pagine di Gambino, la famosa frase di Giovanni Falcone – “La mafia è un fatto umano, e come tutti i fatti umani è destinato a finire”risuona di significati più profondi e ci ricorda che il fatto culturale all’interno del quale si producono gli anticorpi all’illegalità non è un mantra per le anime belle ma una postura interiore. Il valore civile di questo libro (che, ripeto, si accompagna senza intralci alla sua letterarietà) si manifesta anche nel racconto di un mestiere, quello del giornalista, che sta vivendo una parabola inquietante, minacciato da un lato dalla polverizzazione delle informazioni veicolate dalla rete e dall’altro dai condizionamenti dei cosiddetti poteri forti. Ecco dunque che il vecchio watchdog journalist, dopo aver inseguito la verità in Libano, in Afghanistan, in Colombia e negli altri scenari di guerra che Gambino ha esplorato dopo il lungo apprendistato nella sua terra d’origine, si ritrova a mentire a un taxista romano che lo sta portando a Saxa Rubra, vergognandosi di essere finito a inseguire notizie di gossip in un rotocalco televisivo del primo pomeriggio. È una delle tante scene memorabili di questo libro, dove il dramma si fonde alla commedia, dove l’ironia diventa una declinazione del tragico, dove la bellezza sopravvive alla miseria. È ciò che accade, solitamente, nella vera letteratura.»
immagine per Casa che eri di Giorgio Ghiotti
proposto da:
Giulia Caminito
«Giorgio Ghiotti ha iniziato a pubblicare a diciotto anni e da subito ha mostrato un talento naturale e profondo per la lingua, una maturità nella consapevolezza dello scrivere che è assai difficile trovare. In Casa che eri (Hacca) si vede la sua crescita nella ricerca della parola giusta, nel ritmo rinforzato e tenuto delle frasi e nella volontà di far sposare una prosa più classica, tradizionale e novecentesca, con un linguaggio contemporaneo, spregiudicato, vivo, giusto per la sua età e il suo sguardo. Colpisce di questa narrazione la sua capacità di raccontare una generazione a lui prossima, quella dei quaranta-cinquantenni, che già si abbandonano a una certa nostalgia del passato appena trascorso e che però ancora vivono a pieno la maggior parte delle proprie giornate. Al centro del romanzo c’è una amicizia, anzi più amicizie che negli anni hanno avuto un ruolo di casa e di famiglia e che sembrano essere arrivate a un cambiamento doloroso. Ma all’interno del libro sono le immagini, più che la trama, a guidare la lettura, immagini corporee di incontri fortuiti e sessualità acuminate, di maternità atipiche e in pericolo, di case e rifugi, immagini di riferimenti letterari che non suonano mai scontati o di facciata. Nel passo della voce narrante ritroviamo l’amore di Ghiotti per la poesia e riconosciamo anche la sua forza nel non doversi mai piegare a mode del momento, ma nel mantenere dritta la barra della bella scrittura e della voglia di raccontare, senza fronzoli e senza voyerismi, quanto oggi siano imprevedibili e malinconiche le relazioni più intense della nostra vita.»
immagine per Monica Giorgi e Serena Marchi, Domani si va al mare
proposto da:
Pierluigi Battista
«Già il sottotitolo evidenzia la avventurosa complessità della vita di Monica Giorgi, che scopre nel tennis – giocherà anche con Lea Pericoli – una ragione di vita e di sfida, ma vuole dare alla sua esistenza una pienezza che va al di là della competizione sportiva. Figlia della borghesia benestante di Livorno, scopre l’anarchia, viene coinvolta in una storia di rapimenti a scopo politico in cui grida la sua innocenza (e gli resta solidale Adriano Panatta), prende la via dell’esilio. Una storia appassionante, scritta con il decisivo apporto di Serena Marchi, con una scrittura limpida, avvincente, capace di rendere compiutamente i chiaroscuri e anche le contraddizioni di una vita molto particolare.»
immagine per Giovanni Greco, Il Club 27
proposto da:
Maria Teresa Carbone
«Non ha un nome, ma la protagonista del romanzo più recente di Giovanni Greco, Il club 27, possiede una voce sonora e inquietante. Il racconto in prima persona della sua vita di adolescente e poi di giovane donna tormentata tiene il lettore prigioniero dentro una psiche che pare incapace di distinguere tra vero e falso, tra desiderio e realtà. Ad attirare la ragazza è l’aspirazione tragica e puerile di morire a 27 anni, come tanti suoi idoli, da Jimi Hendrix a Janis Joplin, quasi che questo le potesse dare il carattere, il senso di appartenenza, di cui è o si sente priva. La formazione di classicista e la profonda conoscenza della drammaturgia di Giovanni Greco emergono nella struttura del testo, un lungo monologo scandito in capitoli che portano i nomi degli “eroi” del fatidico club – una struttura che riflette con precisione gli andirivieni emotivi della protagonista e mantiene il lettore in uno stato costante di tensione, verso un finale la cui inevitabilità non è mai scontata. Con il suo oscillare tra apatia e slanci di vitalismo, tra il sogno di morte e la ricerca disperata di un’identità, la protagonista diventa il ritratto di una generazione oppressa dal fascino per l’autodistruzione e dalla paura di vivere. Al tempo stesso, senza offrire risposte, né tanto meno consolazioni, Il club 27 pone domande che hanno origini antiche e universali: davvero muore giovane chi è caro agli dei? O è lo stesso passaggio all’età adulta a segnare una fine, una cesura irreversibile?»
immagine per Silvia Grossi, L’isola di Elsa copia
proposto da:
Giovanni Maritati
«È un libro che ripercorre i temi prediletti, le speciali esperienze poetico-letterarie e il prezioso bagaglio umano di Elsa Morante, la prima scrittrice a vincere il Premio Strega nel 1957 con L’isola di Arturo. La vicenda raccontata da Silvia Grossi si sviluppa proprio a Procida, l’isola dove Elsa Morante ambientò il suo famoso romanzo, attraverso il dialogo fra una scrittrice di oggi in crisi esistenziale e la ragazza scelta quell’anno per impersonare Graziella secondo una consolidata tradizione locale ispirata al celebre racconto ottocentesco di Alphonse de Lamartine. Con uno stile fluido e nitido, il romanzo di Silvia Grossi, oltre a essere un omaggio sentito e sincero all’indimenticabile Elsa Morante, è un viaggio avventuroso nel tempo e nei sentimenti, una esplorazione di pezzi di vita che ancora oggi ci appartengono per la loro inattesa e inesauribile attualità.»  
immagine per Riccardo Ielmini, Spettri Diavoli Cristi Noi
proposto da:
Michele Dalai
«Spettri Diavoli Cristi Noi di Riccardo Ielmini parla dell’indicibile con il linguaggio veloce ma profondo della prosa poetica, come fosse un recitar cantando che ci ipnotizza davanti al fuoco che unisce e illumina la notte profonda del Male, quella in cui il racconto delle scorribande notturne diventa rito magico e poco dopo leggenda. Come in una versione moderna dei Fratelli Grimm Ielmini usa la lente deformante dello sguardo infantile per muovere sulla sua scena personaggi sbilenchi e poco illuminati, tratti rassicuranti che diventano spaventosi nel giro di una frase. La lingua del romanzo è nervosa e antica, i mostri di ieri diventano fantasmi senza lenzuolo di oggi. Propongo agli Amici della domenica questo romanzo convinto che possa rappresentare una forte alternativa all’autofiction e allo schema tradizionale dei plot lineari, sostituendoli con un viaggio nelle paure più inconfessabili, quelle che preparano alla vita.»
immagine per Daniele Kong, Bestie in fuga
proposto da:
Simonetta Sciandivasci
«Bestie in fuga è il primo romanzo di Daniele Kong, che scrive sempre, soprattutto quando disegna. Lo propongo al Premio Strega per questo suo talento così difficile da spiegare ma lampante dalla prima pagina del suo romanzo a fumetti, o graphic novel, se preferite. Esistono parole, frasi che sono state svuotate di senso, sono diventate retoriche e nessuno le usa più, se non con mille premesse: Kong le usa tutte, nel loro senso assoluto e senza “forse” o “tuttavia” o “ma anche”, perché ha il coraggio dell’ingenuità, che è uno dei temi di questa sua storia, e riesce a farlo affidando ai disegni la carica, la tempra, l’assoluto. I disegni sono perentori quando le parole sono lasche, il tratto mette il punto quando le parole sfumano. Questa sinergia fa sì che l’energia letteraria di Bestie in Fuga sia un’energia morale. Sono gli anni ’50, il boom economico lascia indietro chi non vive per progredire e così i poveri diventano miserabili, la ricchezza diventa la sola libertà possibile, l’emancipazione diventa un obbligo e una servitù. Siamo a Dieci, sperduta isola del Tirreno dove un villaggio di pescatori degrada nell’oblio finché non arriva una troupe cinematografica per girare un film su Gesù e tutto cambia, perché tutto peggiora. È l’inizio di quel colonialismo interno che ha snaturato il nostro Paese con l’illusione del progresso e con cui non abbiamo ancora fatto i conti. Le bestie in fuga sono i pesci di Dieci e i suoi abitanti: scappano da chi ha bisogno che loro restino poveri cristi da documentario e da attrazione turistica; scappano da chi non accetta che, per loro, vivere non è migliorare ma stare bene, poter restare, poter stare. Ci chiediamo come mai nelle società del benessere si soffra così tanto, e questo è un romanzo che risponde, e nel rispondere racconta una storia seppellita, che è di tutti, è nelle nostre famiglie, nel DNA di questo Paese che è un collage di soprusi e di dialetti, che in questa storia sono centrali, e sono tre, anzi quattro: c’è anche l’italiano.»
immagine per Sergio La Chiusa, Il cimitero delle macchine
proposto da:
Giuseppe Lupo
«Il romanzo di Sergio La Chiusa è un potente atto d’amore nei confronti della scrittura come interpretazione del mondo, oggetto da modellare secondo le curve di un monologo interiore, flusso di una coscienza definitivamente smarrita. Protagonista della storia è un personaggio che si fa chiamare Ulisse (nome che strizza l’occhio all’altro Ulisse che aveva inaugurato il Novecento percorrendo le strade di Dublino) e veste i panni di un io vagabondo alla cui voce l’autore affida il racconto di una disincantata postmodernità. Siamo in un’epoca indefinibile e la città di Milano, un tempo frenetica e produttiva capitale morale del Paese, ha perduto l’immagine scintillante della moda per riscoprirsi simile a un immenso cantiere in cui non si costruisce più niente e dove si può solo incontrare la disperazione degli ultimi, i poveri, gli invisibili, i rimossi, quelli che sperimentano il risveglio di un’alba senza futuro. L’approccio apocalittico, la prosa labirintica e canzonatoria, la materia narrata fanno di questo libro un romanzo originale, controverso, corrosivo, disperatamente profetico.»
immagine per Emanuele Ludovisi, Il grande dilettante di Lisbona
proposto da:
Marcello Ciccaglioni
«Il grande dilettante di Lisbona è il racconto di un’avventura che ruota attorno all’enigma del destino umano. La domanda di fondo che sottende l’intera opera scaturisce da una frase dello scrittore austriaco Holenia evocata nel romanzo: “crediamo che il nostro destino sia qualcosa di fortuito mentre in realtà tutto ciò che ci succede si adatta perfettamente a ciascuno di noi”. Il protagonista della vicenda, Sebastian Zanè, un importante funzionario governativo statunitense di origini italiane, nel corso della sua missione a Lisbona, si trova costretto a fronteggiare non solo le complicazioni di un delicato caso diplomatico al centro di interessi internazionali ma anche a cercare di risolvere i propri nodi esistenziali che sembrano riflettere un inevitabile destino. Elias Canetti ha rilevato come alcune opere narrative contengano “una spinta all’universalità”, come partendo dalla storia narrata inducano in sostanza a indagare temi che attengono ad una sfera più alta di quella dettata della pura cronaca dei tempi che viviamo. Il grande dilettante di Lisbona muovendo dal racconto delle vicende del protagonista impegnato in un pericoloso confronto internazionale dove tutto è concesso per vincere la partita, con un’accurata ricostruzione dei profili psicologici degli attori in campo, delinea uno scenario in cui i destini personali e quelli delle nazioni impegnate nei grandi conflitti della storia finiscono per confondersi. La magia di un’opera, come nel caso di questo romanzo, prende forma proprio quando la storia narrata e le avventure dei protagonisti riescono a proporre una poetica che tocca i valori più profondi dell’avventura umana. La natura avvincente del racconto, la profondità psicologica dei personaggi, lo stile asciutto della scrittura, le suggestioni di straordinaria attualità del “grande gioco” del confronto geopolitico internazionale e l’universalità dei temi trattati, sono le ragioni per le quali propongo il romanzo Il grande dilettante di Lisbona di Emanuele Ludovisi al Premio Strega».
immagine per Di spalle a questo mondo di Wanda Marasco
proposto da:
Giulia Ciarapica
«Di spalle a questo mondo di Wanda Marasco (Neri Pozza) è di certo un romanzo ispirato al racconto della vita di Ferdinando Palasciano, primo chirurgo a proclamare il principio di neutralità dei feriti di guerra e che, come quel Vincenzo Gemito che pare consegnargli il testimone, trovò nella follia uno sguardo più lucido sulla realtà. Così com’è anche il romanzo di un’altra protagonista, Olga Pavlova Vavilova, moglie di Palasciano. Ma dire che il romanzo di Marasco si limiti a questo, vorrebbe significare la negazione di un senso più profondo dell’intera storia, fatta innanzitutto di ricerca stilistica più che di trama. Se è vero che la claudicanza di Olga è pronta a trasformarsi in una zoppia universale, che appartiene a noi tutti – uomini e donne di ieri e soprattutto di oggi –, è altrettanto vero che questa claudicanza interiore ha uno scopo principe in questo romanzo, quello di attribuire una verità alla fragilità umana. Marasco parte dal corpo, e in primo luogo quello dei due protagonisti, per far sì che proprio questo strumento umano si trasformi in uno strumento di scrittura, un mezzo attraverso cui l’autrice – con tutta la sua personalità drammaturgica – ci racconta chi siamo stati e cosa continuiamo a essere. Lo fa con una lingua che non ha altri punti di riferimento se non sé stessa, un lavoro di artigiano raffinatissimo che unisce più dimensioni: la lingua di appartenenza, quella delle madri, quella d’origine casalinga (dunque dialettale); quella imparata, con lo studio e la pazienza; e quella della poesia, grazie a cui Marasco, con pochi termini sontuosi e tuttavia terreni, riesce a dare parola e sostanza all’invisibile che rincorriamo ogni giorno.»
immagine per Sebastiano Martini, Il desiderio imperfetto
proposto da:
Claudio Strinati
«Il libro di Martini è un piccolo poemetto, sia pur in prosa, sul velleitarismo quale latente dimensione sottesa al carattere e al comportamento conseguente di molti di noi, di certo ispezionabile tramite la decrittazione psicanalitica e generatore, a certe condizioni, di possibili forme d’ arte compiute nelle diverse tecniche, a condizione di saperne dare rappresentazione, sia figurativa, sia letteraria, per non addentrarci qui (Martini ne fa comunque cenno nel libro) su innumerevoli altre modalità di rappresentazione, dalla musica, al cinema, al teatro. La velleità è infatti, nel bel testo di Martini, quel fragile discrimine tra l’assoluta impossibilità e, paradossalmente, la piena possibilità di arrivare a una forma espressiva che annulli il rovello esistenziale destinato alla sterilità e marchi invece il presupposto dell’opera compiuta. Tutta la storia raccontata da Martini si dipana intorno a questo dilemma che, ovviamente lungi dall’essere sciolto, è ribadito nel finale che inevitabilmente torna al punto di partenza come a volere dire che in sostanza non è accaduto nulla di quel che pur viene narrato. Il libro di Martini è una sorta di racconto lungo come se ne sono scritti nella prima stagione romantica ancorché possa anche essere letto quale romanzo di formazione “al contrario”, perché si parla sostanzialmente di illusioni e proprio nell’ ottica romantica recuperata nel nostro tempo per cui l’illusione che pervade tutti i personaggi è piuttosto la disillusione, esposta dal narratore in modo referenziale senza indulgere nel sentimentalismo, totalmente estraneo al suo orizzonte creativo. Qui subentra la forte componente autoironica che è, in verità, a fondamento del libro, componente che è dell’autore, ovviamente, ma che l’autore pretende dal suo lettore implicitamente invitato a non prendere troppo sul serio le vicende narrate e a non prendersi troppo sul serio nel momento della formulazione del giudizio critico sull’ opera. Come se, appunto, riascoltassimo durante la lettura di Martini le ballate di tutti i grandi disillusi del nostro tempo che si chiamino Fabrizio de André o Bob Dylan, i cui atteggiamenti sembra quasi di vedere in controluce nelle apparentemente fin troppo lineari pagine del libro di Martini, a mio avviso meritevole di seria attenzione e ammirazione.»
immagine per Ricordi di suoni e di luci di Renato Martinoni
proposto da:
Pietro Gibellini
«Renato Martinoni è concordemente ritenuto il maggior narratore svizzero di lingua italiana del nostro tempo, oltre che studioso di alto profilo e professore emerito di Letteraratura italiana all’Università di St. Gallen. Per narrare questa Storia di un poeta e della sua follia lo scrittore si è certo giovato dello specialista di Dino Campana, ai cui Canti Orfici ha dedicato un esemplare commento  (Einaudi, 2003, più volte riedito e ristampato) e sul quale ha procurato studi innovativi (Orfeo barbaro, Marsilio, 2017). Ma lo studioso si è qui posto totalmente al servizio dello scrittore, inventivo e profondo. L’incandescente vicenda fisica e mentale del protagonista, resa con soluzioni stilistiche originali e cortocircuiti immaginativi sorprendenti, e con una ammirevole qualità linguistica, si versa in una calcolata architettura: quattro parti (La fata verde, La fata bianca, La fata rossa, La fata nera), ciascuna di sei capitoli. Riviviamo gli ultimi anni di vita del grande poeta Dino Campana: dal 1915, l’anno successivo alla pubblicazione dei Canti Orfici, fino al 1932, l’anno della morte in manicomio, dove Campana è entrato quattordici anni avanti. Come chiarisce l’autore nell’Avvertenza finale, in questo romanzo la realtà e la fantasia a volte si incontrano, altre si intrecciano, altre ancora si mescolano in un gioco narrativo dove verità e  invenzione si trasformano in una “fiaba lirica” (come ha osservato Dacia Maraini commentando il precedente romanzo di Martinoni, La campana di Marbach, Guanda 2020, che ha per protagonista un altro diverso, il pittore Antonio Ligabue). Proprio per allontanare il racconto da una realtà altrimenti troppo riconoscibile, il protagonista viene chiamato “il poeta”, oppure (come lo definisce la gente, con disprezzo) “lo strambo”, “il vagabondo”, “il matto”. Il nome di Campana compare difatti soltanto alla fine dell’ultimo capitolo del romanzo, proprio per tenere lontana la narrazione dalla biografia, creando insieme uno stato di suspense. Infatti il romanzo non vuole narrare la vita di un uomo, anche se lo scenario è quello dei luoghi realmente frequentati dal “matt Campèna” nella sua mania ambulatoria e le persone, pur con nomi diversi (Sibilla Aleramo è Samia), sono quelle con cui ha avuto dei rapporti. Esso segue una tesi molto accattivante: quella secondo cui la follia consegue alla progressiva coscienza dell’impossibilità, per chi sa di essere stato un poeta grande e originale, di essere ancora poeta: della perdita della Poesia, insomma.»
immagine per Paradiso di Michele Masneri
proposto da:
Gian Arturo Ferrari
«Con la levità crudele del suo maestro Alberto Arbasino, Michele Masneri ha dipinto un hortus conclusus sulla riva del Tirreno laziale – il Paradiso del titolo, appunto – abitato da una fauna umana eterogenea ma accumunata da una decisa propensione all’insensatezza e al disfacimento. In questa sorta di presepe capovolto, microcosmo in cui si rispecchia se non il mondo almeno la mondanità contemporanea, viene a capitare un estraneo, il giovane giornalista, ingenuo e sprovveduto, che funge da protagonista. Eppure sarà proprio lui, l’estraneo, a restare prigioniero di questo luogo magico e della sua rovina. Dato che dal Paradiso, che forse è l’Inferno, non si può uscire.»
immagine per Giulio Milani, Codice Canalini. Ingrate patrie lettere
proposto da:
Massimo Onofri
«Codice Canalini di Giulio Milani è un memoir di grande fascino narrativo, tra ricordi personali e testimonianza storica, che ha come protagonista uno dei più affascinanti e innovativi editori del panorama italiano dagli anni ’80 a oggi, il quale, con la collaborazione dell’indimenticato Pier Vittorio Tondelli (di cui quest’anno ricorre il settantesimo anniversario della nascita), altro personaggio cruciale di queste pagine, diede un contributo importante alla storia della narrativa italiana (si pensi al progetto Under 25), la quale, senza questo lavoro, non sarebbe oggi quella che è stata. Non poche le qualità del libro che ci restituisce, oltre al ritratto di Canalini e Tondelli, anche quello di un preciso momento della società letteraria italiana e della sua cultura, riconsiderata dal punto di vista della provincia. Altro valore aggiunto di non poco conto è la capacità dello scrittore di passare di continuo, e con grande naturalezza, dalla fotografia personale e storica alla riflessione sulle dinamiche culturali ed editoriali, che continuano a influenzare la produzione letteraria contemporanea. Da ultimo non si possono non sottolineare i pregi d’una scrittura limpida e avvincente, di felice disposizione romanzesca, capace di incalzare il lettore dall’inizio alla fine, senza mai momenti di stanca.»
immagine per Di quel che c'è, non manca niente
proposto da:
Rosa Maria Grillo
«Quarto romanzo pubblicato da Francesca Romana Mormile, ex docente da sempre impegnata in ambito formativo, con specifica attenzione ai temi propri delle Agenzie educative. La storia racchiude un mondo in cui tutti possiamo riconoscerci: una madre sola, un adolescente impantanato in una dipendenza consolatoria, una burocrazia pachidermica e un mondo adulto propenso alla latitanza. Temi scottanti e scivolosi, che Mormile tocca sporcandosi le mani in prima persona, con un registro credibile quanto ironico, giocando con le parole e i luoghi comuni, gli aspetti surreali del suo io multiplo, flash back illuminanti e ben riusciti rimandi al grande schermo, ma rivolgendo un invito deciso agli adulti, qualunque sia il loro ruolo, a non rinchiudersi dietro il politicamente corretto o un effimero lieto fine.»
immagine per Andrea Moro, Cinquantun giorni
proposto da:
Paolo Di Paolo
«È un linguista, un neuroscienziato di fama, allievo di Noam Chomsky, Andrea Moro; e presta alla scommessa del romanzo la sua coscienza profonda della natura del linguaggio. Come invenzione, come relazione. Nella Milano del 1978 – cupa, elettrica: da lì si sente il rumore di un’epoca – due gruppi di attori si sfidano nel portare in scena una versione nuova dell’Iliade. Così il poema di Omero entra – letteralmente! – nel presente: i suoi temi, i suoi corpi, le sue domande radicali si reincarnano negli attori “antagonisti” e nelle loro esistenze concrete. Si nutrono, quindi, delle loro angosce, dei loro desideri, del loro “qui e ora”: “Si chiese molte e molte volte nella sua vita matura se la sua passione per il teatro non fosse proprio venuta da quella capacità di trasformare ciò che si vive in qualcosa d’altro con la sola forza della decisione”. Romanzo teatral-filosofico, epico di un’epica che si polverizza nel quotidiano, Cinquantun giorni ci rivela progressivamente, con una struttura narrativa e una prosa mai ovvia, la grammatica emotiva dell’umano sovratemporale. L’amicizia, la vendetta, le forme d’amore, la pietà, la vergogna. E l’ira funesta che esplode – anche storicamente, politicamente. Tutto inquadrato nella scommessa e nell’affanno delle prove, che sono decisive su un palcoscenico teatrale e sono forse anche la sostanza di ogni vita.»
immagine per Erica Mou, Una cosa per la quale mi odierai
proposto da:
Concita De Gregorio
«Una cosa per la quale mi odierai di Erica Mou ha una voce unica e senza paragoni, nel pur ricchissimo panorama italiano. È una voce antica e nuovissima, arcaica e vergine. Come di una presenza bambina che contenga la sapienza delle origini. È seria senza essere grave, è ironica senza essere irridente, è crudele senza cattiveria, dolce senza compiacenza. Racconta, questo diario di tre vite, il punto in cui la fine e l’inizio si incontrano. Se la vita è un cerchio, come rotonda è ogni cosa perfetta, deve essere allora molto prossimo il varco da cui si entra e quello da cui si esce: due porte che si guardano. Nove mesi è durata la malattia della Madre (“devo dirti una cosa per la quale mi odierai: sto morendo”, è la notizia) nove mesi dura la gravidanza della Ragazza che mette al mondo la Figlia. Non era mai stato aperto prima, quel brutto quaderno dozzinale sul quale la Madre aveva annotato la cronaca del suo finire, in quella cronaca dicendo cose che Ragazza non aveva mai saputo. Si apre, Ragazza lo apre, nel tempo dell’attesa di questa vita nuova: quando sta a sua volta diventando madre di figlia. Dieci anni ci sono voluti, prima che fosse il tempo di leggerlo. “Avrei, speravo, ritrovato la sua voce che non ricordo più”. Ma, come sempre, succede quello che non prevedi, non ti aspetti. Succede altro, mentre percorri la fine e l’inizio, l’ansia e la vertigine, la paura e la speranza, la gravidanza e la nausea, la malattia e la nausea. Succede qualcosa che non riguarda le tre protagoniste, riguarda noi che leggiamo. È un romanzo che parla della vita, del suo valore, del suo misterioso nascondersi e del suo improvviso rivelarsi. Erica Mou è una musicista magnifica, è (anche) un’artista della parola e del suono. Canta, questo libro, come una melodia senza tempo.»
immagine per Mimmo Muolo, Ribellarsi alla notte
proposto da:
Giovanni Grasso
«Si tratta di un’opera briosa e originale che scava, attraverso i meccanismi del giallo, nel fondo dell’animo umano alla ricerca di risposte sul significato profondo dell’esistenza.»
immagine per Raffaele Nigro, Il dono dell’amore
proposto da:
Renato Minore
«Nel Il dono dell’amore, lo sguardo di Raffaele Nigro è rivolto alla contemporaneità riflessa in un romanzo dalla architettura complessa come rigenerata dal suo scorrere nei nodi di una vicenda di ricerca e di disagio collettivo. La chiave della denunzia sociale si affianca a quella della riflessione intimistica sullo sfondo della Puglia del primo decennio del nuovo Millennio, tra le emergenze della fuga dei giovani, le migrazioni del Mediterraneo e la scommessa dell’integrazione. Il racconto in cui personaggi di finzione convivono con personaggi reali, si affida alla voce del trentenne Marsilio da Ponte, pittore di talento ma privo di una propria linea, che si aggira per ristoranti e caffè in compagnia di una combriccola di artisti. Marsilio è figlio di un importante allevatore afflitto da un problema sociale, frenare la fuga di giovani che fuggono dai borghi e dalle città del sud attratti dalla vita delle metropoli del nord Italia e dell’Europa. Nigro sa alternare il suo sguardo con una forte valenza antropologica, nei toni di un anche feroce e insieme caritatevole apologo sui nostri tempi, sulla crisi di valori e di autenticità che coinvolge individui, gruppi, antiche e nuove rappresentanze sociali. Il tutto in una generosa immersione nello spirito del tempo, con le sue speranze e le sue fratture che Nigro racconta cercando nei suoi tanti rivoli la persistenza di una continua febbrile interrogazione che è la forza anzi il dono del suo romanzo.»
immagine per Chiudo la porta e urlo di Paolo Nori
proposto da:
Giuseppe Antonelli
«“Io, quella lì era una storia”. In Chiudo la porta e urlo di Paolo Nori la vita diventa letteratura, la poesia diventa racconto. Il gioco di specchi tra le poesie di Raffaello Baldini e l’autobiografia di uno scrittore sessantenne si frantuma in acuminate schegge narrative. Frammenti di un racconto umoroso – curioso, pensoso, a tratti furioso – sul senso della vita e della letteratura. Tasselli di un mosaico sghembo il cui disegno complessivo s’intuisce solo visto da lontano, dalla distanza dei ricordi. “Io mi ricordo tutto”. E dunque memoriale degli affetti e delle letture: amarcord sempre in bilico tra italiano e dialetto. La doppia anima delle poesie di Baldini – scritte nel suo dialetto di Sant’Arcangelo di Romagna e da lui stesso tradotte in italiano – riflessa in una lingua che del dialetto trattiene l’intimo ritmo, le cadenze interiori. Esito di una lunga ricerca e di una lenta conquista, come ricorda Nori: “una lingua che non era una lingua neutra e non era una lingua scritta da uno che ci teneva si vedesse che aveva dato sette esami di filologia, era una lingua che aveva molto a che fare con l’italiano che si parlava a Parma”. Una ricerca filologica, nondimeno, che passa attraverso i testi e i documenti di Baldini conservati negli archivi e scava al tempo stesso nel proprio vissuto. Tutt’uno con la ricerca esistenziale di un senso (“ho passato gli anni a chiedermi Quand’è che si vive?”), a volte ritrovato in una manciata di versi. Nella capacità della poesia di Baldini di cogliere quei momenti – impalpabili e sorprendenti – in cui “succede una cosa semplicissima e meravigliosa: si vive”. Il risultato è un romanzo così allegro e disperato che non sembra neanche un romanzo. Un atto di fede nella letteratura che ci fa ridere, pensare, sognare, commuovere: vera benedizione che ci fa sopportare tutto il male detto del mondo.»
immagine per Ciriaco Offeddu, Istella mea
proposto da:
Giuseppe Conte
«È un romanzo ambientato in una Sardegna rurale, brulicante di vita e di mistero, e in una Argentina tormentata dalla dittatura e patria di malinconici migranti. Due grandi personaggi femminili animano il romanzo, Jaja e Rechella, incarnazione delle due opposte polarità del femminile, una cupa e manipolatoria, l’altra generosa e solare. Ciriaco Offeddu ci offre un romanzo vasto, generoso, lontano dalle tonalità della autofiction e capace di scavare nel substrato ancestrale delle umane vicende. La “surbile” al centro del romanzo più che una rappresentazione tratta dal folklore sardo è una vampira metafisica, vicino alle figure femminili più grandi del teatro greco. Lo scontro lungo una intera vita delle protagoniste ci pone di fronte a domande capitali ed eterne. Esiste un fato che ci determina o siamo liberi di costruire il nostro destino? Esiste un amore tanto grande da farsi “stella” che ci guidi lungo il cammino?»
immagine per Ilaria Palomba, Purgatorio
proposto da:
Francesca Pansa
«Un memoir, Purgatorio di Ilaria Palomba, per raccontarsi e conoscersi attraverso la scrittura, una lama affilata e impietosa, immersa nel dolore fisico e mentale. La storia di una donna che si confronta con il disastro della sua esistenza dopo il “grande salto”, un tentativo di suicidio, una straziata condizione di isolamento e cura, la difficile sofferta coscienza di sé e una possibile via di rinascita. Ma è anche la storia più ambiziosa, tra allucinazione e presagio, di come costruire il memoir rifiutando l’autocommiserazione o la via salvifica della speranza. Nell’intreccio tra memoria, lacerazione del presente, tentazione del vuoto e assillo di una ripresa comunque piagata dal ricordo, vive l’immersione in una scrittura ossessiva e frammentata, rigenerata nelle sue fonti colte, dai Vangeli a Thomas Bernhard, a Jacques Lacan. L’unica possibile via per uscire dalla condizione “purgatoriale” anche del genere, con la consapevolezza delle proprie ferite, ma con una scintilla di resistenza vitale per cercare di esistere ancora. Presento questo libro per la ben consapevole ricerca di una meditata e convincente forma letteraria che lo distingue dalla cronaca di un qualsiasi caso di vertiginosa caduta nella spirale dell’annientamento di sé e della ricerca di senso dopo il trauma.»
immagine per Confiteor di Piergiorgio Paterlini
proposto da:
Lorenza Foschini
«Settant’anni di vita, raccontati come fossero l’attraversamento di tre secoli con i mutamenti epocali che dall’Ottocento al nuovo millennio si sono succeduti. L’autore riavvolge in modo del tutto originale il proprio percorso interiore – ma profondamente immerso nella realtà – senza mai ricorrere al flusso di coscienza, ma con lo stile del grande narratore di storie. Un libro che gioca dunque con il memoir e con l’autobiografia, ma che in realtà è un romanzo, il romanzo della formazione “permanente” di un uomo dolcemente libero. Sembra di sentire Paul Auster quando dice: “I miei libri biografici non sono autobiografie, non è tanto la storia mia che mi interessa, ma usare le mie esperienze per pormi delle domande sul mondo”.»
immagine per La linea del silenzio di Gianluca Peciola
proposto da:
Gioacchino De Chirico
«Del romanzo di Gianluca Peciola si può dire a buon diritto ciò che a volte si sostiene a sproposito: è un libro necessario. Ambientato negli anni Settanta, è il romanzo di formazione di un bambino, poi ragazzo, che fa i conti con due segreti di famiglia. Uno, molto personale, riguarda l’identità di un padre che non ha mai conosciuto. L’altro, che da personale si fa politico, riguarda il vero motivo per cui la sua amata “cugina” Laura si trova in carcere. E il motivo è che è stata coinvolta nella lotta armata delle Brigate Rosse, ha partecipato ad azioni armate, è stata carceriera di Aldo Moro. Trovo questo romanzo necessario perché è una rivisitazione potente e originale di un periodo importante della nostra storia. Gli eventi, i protagonisti, i processi sono in gran parte noti, ma non lo sono i modi e i motivi in cui le ferite di quegli anni infettano ancora il corpo vivo del nostro Paese: modi e motivi che hanno a che fare con la psiche, con l’inconscio collettivo. Così nel romanzo la famiglia, la paternità, i legami tra le persone non sono solo elementi che compongono una trama: sono ciò che dà senso alla Storia. Gianluca Peciola ha preso la sua vicenda umana e l’ha usata come chiave di lettura del passato di tutti. Lo ha fatto con generosità non solo nella rievocazione storica, ma nella resa narrativa: con uno stile che si concede vari registri, da quello del lessico famigliare a quello del discorso politico, e su cui domina quello della riflessione intima, capace di farsi universale. Ed è così che questo libro esce fin dalle prime pagine dal novero dei memoir e si colloca pienamente nel dominio della letteratura. Particolarmente interessante mi sembra infine il percorso – sicuramente di scavo interiore – con cui Gianluca Peciola autore ha creato un Gianluca personaggio che va oltre lui stesso. Un protagonista che prova a capire, a contrastare, a emulare, a rifiutare, stremato e disorientato in un mondo in cui la sua crescita è un percorso a ostacoli, pieno di menzogne, di non detti e di conti da fare con la storia. La perfetta metafora di un Paese.»
immagine per Morena Pedriali Errani, Il cielo sopra Gaza non ha colori
proposto da:
Giorgio Nisini
«Raccontare la guerra di Gaza significa confrontarsi con il nostro presente. Gli strumenti per farlo possono essere tanti – la storiografia, l’autobiografia, la cronaca, il giornalismo d’inchiesta ecc. – così come tante possono essere le angolazioni e i punti di vista. Morena Pedriali Errani, con questo suo nuovo coraggioso romanzo, Il cielo sopra Gaza non ha colori, sceglie gli strumenti della letteratura, optando per una prospettiva che ci restituisce i nodi più oscuri e tragici di quel conflitto attraverso lo sguardo di due gemelle palestinesi, Nur e Layla. Il fondale in cui avvengono i fatti è quello successivo all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, che ha generato la violenta controffensiva dello Stato di Israele nella striscia di Gaza. L’autrice segue le vicende delle due protagoniste nel confuso vortice di morte che avvolge i territori di guerra, tra attacchi aerei, bombardamenti, sfollamenti che trasformano la realtà in un dolente luogo infernale. Eppure c’è ancora spazio per l’incanto: Nur è cieca, e Layla cerca di proteggerla con le armi della fantasia, facendole credere che le bombe siano fuochi d’artificio e le urla grida di festa. Ne viene fuori un romanzo che si confronta non solo con uno dei grandi drammi del tempo presente, paradigma di una débâcle umana che ancora non trova soluzione, ma anche con le infinite possibilità della scrittura letteraria, con i suoi giochi di illusionismo e le sue perenni aspirazioni utopiche.»
immagine per La guerra dei Traversa di Alessandro Perissinotto
proposto da:
Alessandro Barbero
«La guerra dei Traversa è il conflitto che spacca la famiglia omonima per più di un secolo, e inizia nello stesso anno in cui l’Italia comincia la sua discesa verso la dittatura e poi verso la Seconda Guerra Mondiale: il 1922. È il 18 dicembre del 1922, il giorno della strage di Torino, a segnare lo spartiacque tra un passato di tranquilla imprenditoria e un futuro di rovina economica e morale. In quel giorno, le camicie nere guidate da Piero Brandimarte danno l’assalto alla Camera del Lavoro di Torino e scatenano una furiosa caccia all’uomo nei quartieri operai della metropoli piemontese. I dati ufficiali parlano di undici persone uccise, ma in realtà i fascisti rapiscono, torturano e massacrano una trentina di uomini, i cui corpi vengono gettati nel Po o abbandonati nei boschi della collina. La strage del 18 dicembre investe i Traversa come un cataclisma dal quale neppure le generazioni successive potranno salvarsi. A raccontare queste vicende è un membro della famiglia la cui identità rimane occultata fino agli ultimi capitoli del romanzo: la sua narrazione conduce il lettore attraverso le pieghe della Storia, dalle violenze squadriste ai campi di detenzione per esuli stranieri in Francia, dai bombardamenti aerei sulle città italiane agli interventi dei militari italiani per salvare gli ebrei nella Francia occupata. Fedele al dichiarato proposito di “rammendare la memoria” che guida da tempo la sua scrittura, Perissinotto mescola ricostruzione storica e invenzione, ma rispetto alle sue opere precedenti qui il dosaggio dei due ingredienti cambia: a prevalere è ora il “racconto del vero”. Un “vero” che non perde la sua essenza neanche quando viene trattato come materia romanzesca, e raccontato con il ritmo incalzante del romanziere che cerca di inchiodare il lettore e impedirgli di interrompere la lettura. L’autore utilizza la famiglia Traversa (che, neanche troppo velatamente, è il ramo paterno della sua stessa famiglia) come lente di ingrandimento per l’esame di un passato i cui fantasmi sembrano pronti a riapparire nel nostro presente e nel nostro futuro. Per la trama mai scontata, per le scelte narrative che ne segnano l’architettura, per la cura del tessuto linguistico e per l’ostinata speranza che la letteratura possa funzionare da campanello d’allarme, questo romanzo, a mio avviso, merita la candidatura al Premio Strega.»
immagine per Attilio Piovano, Il tatuaggio della farfalla
proposto da:
Silvana Cirillo
«Attilio Piovano, docente di musica e critico musicale è anche un valido scrittore e non solo in qualità di saggista. Il Tatuaggio della farfalla, infatti, è un romanzo con tutte le carte in regola, capace di incatenare il lettore con la sua struttura tradizionale a forti sfumature di noir: un plot intrigante, un intreccio ben architettato, penetrazione attenta nei caratteri e negli umori delle due protagoniste, dialoghi intelligenti, mano sicura e leggera nel condurre il racconto con una scrittura vivace ed elegante assieme. Si narra del rapporto complicato e altalenante di due giovani donne veneziane, una fotografa affermata, l’altra decoratrice di azulejas trasferitasi a Lisbona, che si incontrano in una galleria d’arte a Venezia e si muovono tra le due città, fra momenti idilliaci e tensioni, attrazione e sconcerto, e svariati colpi di scena. L’autore si orienta perfettamente tra le calli, gli anfratti, le isole veneziane, come nella psicologia e negli umori delle due protagoniste. Si respira amore per l’arte, per la musica, ma anche un senso di solitudine e sradicamento, un desiderio inappagato di affetto, che risale già all’infanzia e a un passato inquietante, e che accomuna le due giovani, nonostante caratteri, comportamenti e abitudini di vita assai diversi. Dunque un rapporto complesso e intrigante, ma anche conflittuale, ricco di “non detto” e puntellato di illuminazioni, che col tempo si fa più imprevedibile e contorto per sfociare, tra forme depressive e slanci amorosi, appuntamenti e abbandoni, in un drammatico finale a sorpresa.»
immagine per La coscienza delle piante di Nikolai Prestia
proposto da:
Daniele Mencarelli
«Tempo, spazio e lingua. Uno scrittore si colloca fra questi temi con lucidità e non meno istinto. Sa cogliere il punto di caduta di un fenomeno per l’ossessivo esercizio del suo sguardo, e sa avverarlo in parole. Nikolai Prestia, con il suo La coscienza delle piante, ci avverte di un pericolo, ribaltando il punto di vista rispetto alla presunta crisi dei nostri giovani. Il problema non sono le nuove generazioni, ma noi, gli adulti e il nostro mondo, dove conta solo il traguardo e il suo raggiungimento. Tanti, come Marco, il protagonista del romanzo, falliscono, non centrano l’obiettivo. Ma è dal fallimento che si genera la vera consapevolezza di sé. La coscienza delle piante è un romanzo crudo, denso di vita e realtà, e Nikolai Prestia uno scrittore che resterà inciso nei prossimi anni della nostra letteratura.»
immagine per Noi, il segreto di Annella Prisco
proposto da:
Corrado Calabrò
«Un incontro occasionale in treno con un giovane sfuggente, uno sguardo con la sensazione di un déjà vu, fanno andare in fibrillazione lo scontato tran-tran coniugale di un’insegnante, sconvolgendo certezze acquisite con un finale a sorpresa.»
immagine per Giuseppe Procaccini, Porte di vetro
proposto da:
Sergio Santoro
«Il romanzo, ambientato a Roma, nel narrare episodi centrati sull’intimità nascosta dei personaggi abitanti in un condominio, tende a trasformare il quotidiano in uno specchio delle anime. In una sola giornata, descrive una tessitura di vite intrecciate dal filo invisibile di circostanze ed episodi comuni, sotto lo sguardo attento di Leopoldo, l’amministratore del palazzo. Personaggio contraddittorio e complesso, Leopoldo si trasforma in un catalizzatore di storie, riflettendo su di esse il proprio passato tormentato e la lotta interiore con la propria esistenza. Attraverso la narrazione introspettiva delle esistenze che si alternano nella scena, il romanzo esplora le piccole grandi tragedie umane con umorismo che riprende inconsapevolmente la vita vissuta e le riflessioni maturate nei corridoi del potere. Gli “intermezzi” del romanzo offrono al lettore l’occasione di riflettere sui pilastri dell’esistenza, mentre le vicende personali, narrate con il pathos delle pièces teatrali, enfatizzano la drammaticità delle scelte quotidiane. Procaccini riprende la vasta esperienza maturata al vertice della carriera prefettizia e nella Polizia di Stato e la sua innata capacità di leggere l’animo umano, per esprimere una narrazione che cattura e sfida, invitando il lettore a guardare oltre la superficie delle “porte di vetro”. Porte di vetro non è solo una finestra sulle vite dei protagonisti del romanzo, ma un invito e un’occasione per riflettere sulla propria esistenza.»
proposto da:
Beppe Cottafavi
«L’Italia è un paese che ha prodotto molta comicità (a teatro, al cinema, in televisione, nelle vignette sui giornali) ma in cui chi scrive per fare letteratura crede quasi sempre di dovere enunciare concetti alti, alati e profondi, prendendosi molto sul serio. Insomma, amiamo scherzare, ma ci vergogniamo di ridere. Soprattutto scrivendo e leggendo. Ne è una prova satirica l’incipit di autocandidatura di Racconti scritti da donne nude, per Rizzoli Lizard di Stefano Rapone. “Richiesta Premio Strega Spettabile gruppo degli Amici della Domenica, mi chiamo Stefano Rapone e sono un giovane e promettente scrittore. Vi scrivo, per l’appunto, per informarvi del fatto che sto ultimando un testo che sicuramente rientrerà nelle vostre corde e sarà da voi giudicato idoneo a ottenere la vittoria del vostro premio più prestigioso, il famigerato Premio Strega”. A seguire Rapone tormenterà anche i giurati dei premi Campiello e Bancarella nella sua idea irriverente di ambire per scherzo all’empireo della letterarietà. Allora perché no? Perché non esaudire il suo desiderio? Rapone fa sulla pagina quello che gli riesce bene sul palco. Parte da un discorso serio e rilassato poi lo squarcia e lo strania con una frase o un’immagine. Un esempio esilarante: scrive un racconto in cui la Madonna sbaglia i luoghi, i tempi e i destinatari delle sue apparizioni. È un libro molto divertente che segnalo alla vostra attenzione e non solo come gesto situazionista e metaletterario. Perché è letteratura. Che fa molto ridere. Peraltro lo Strega esordisce nel 1947 con il Premio a Flaiano che ci avvertiva “La satira in Italia non è molto coltivata, per motivi che forse possono trovarsi nell’Estetica di Croce, la quale considera la Satira come la Cenerentola della letteratura. Qui regna il culto dell’arte e della poesia in senso assoluto. Ognuno, scrivendo, ha per modelli la Divina Commedia, I Promessi Sposi, I Malavoglia […], e nessuno si guarda attorno per capire i lati assurdi, non diciamo ridicoli ma comunque sfrenati della vita che ci circonda. Farlo è mettersi in una posizione di isolamento”. (Ennio Flaiano, “Opere. Scritti postumi”, a cura di Maria Corti e Anna Longoni, Milano, Bompiani 1996, p. 1222.) La solitudine del satiro, appunto.»
immagine per Perduto è questo mare di Elisabetta Rasy
proposto da:
Giorgio Ficara
«La definizione stessa di “romanzo”, in effetti, appare insufficiente per descrivere un libro straordinariamente composito in cui l’arte del ritratto, l’affresco memoriale e la riflessione (sottilissima) su un’epoca difficile, si legano in un dettato originale. Due personaggi, un padre sognatore, allegro, sventato, inconcludente, evanescente, e a suo modo funesto, e un amico famoso e intelligentissimo, Raffaele La Capria, tengono la scena. Se il padre – aviatore sotto il fascismo, poi avvilito fainéant nella Napoli del dopoguerra – rappresenta una specie di fatale sottrazione nella vita della figlia, l’amico scrittore, uno dei sommi del nostro tempo, è il “di più” di spirito, stile e ispirazione cui ogni vita ambirebbe. La forma stessa del libro si piega con grande naturalezza ora alla vicenda del padre, progressivamente tortuosa, ora al magnifico ritratto, per quadri pressoché slegati e fermi, di La Capria: un uomo affascinato dalla “riposante superficie della vita” come dai suoi abissi; uno scrittore-filosofo che osserva il dolore nelle cose stesse; un camminatore, come Palomar, tormentato dalla nostalgia del “paesaggio perduto”… Perduto è questo mare contiene sullo stesso piano narrazione e meditazione, e memoria classica, appunti, sospensioni critiche, come in un vero romanzo. Particolarmente prezioso oggi, nel tempo della sua (decisiva?) reductio all’unum della cronaca e del resoconto.»
immagine per Natale Antonio Rossi, La riga infinita
proposto da:
Nicola Bottiglieri
«Esiste un libro che non ha inizio né fine? Un libro formato da una pagina in bianco e una stampata ripetute per 363 volte? Un libro per metà scritto dall’autore e per metà dal lettore, il quale potrà usare il foglio pulito per continuare la storia. Se impiega la penna o l’immaginazione dipenderà solo da lui. Un romanzo così particolar potrà essere letto aprendo le pagine a casaccio, poi uno decide se continuare la lettura a scendere o a salire. A questo punto viene da chiedersi di quali materiali è fatto questo romanzo che tanto deve alla “rapidità” delle Lezioni americane di Calvino. È composto di 178 storie a grandezza variabile oscillante fra le 11 e le 30 parole, le quali pur nella loro stringata bellezza liberano una formidabile energia. Se volessi sintetizzare con una immagine la natura di questo romanzo, penserei a un mosaico che esplode, dove ogni tessera corre verso un proprio orizzonte. Inseguire i frammenti che volano, accompagnarli verso quel luogo dell’immaginario dove risiedono tutte le storie che nessuno ha mai raccontato, questo è il compito dello scrittore nel mondo liquido in cui viviamo.»
immagine per Fuochi di Lisbona di Paolo Ruffilli
proposto da:
Maurizio Cucchi
«Ecco il romanzo, Fuochi di Lisbona (Passigli), persuasiva opera di un poeta, mosso, anche, dall’ammirazione per un grande autore del Novecento, Fernando Pessoa. L’io narrante si muove sulle tracce dell’amato poeta, nella città di lui, Lisbona, e qui nasce per lui, rapidamente, una vicenda d’amore, parallela a quella vissuta da Pessoa stesso, di cui Ruffilli cita, da lui tradotti, vari passaggi. Ne scaturisce un’opera molto originale, nel suo percorso e nella sua struttura, nei suoi passaggi e nelle vicende raccontate, un testo, dunque, che riesce, in modo sorprendente, a porsi come felice narrazione con sensibili intuizioni poetiche.»
immagine per Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol
proposto da:
Walter Veltroni
«Per la prima volta segnalo un romanzo ai giurati del Premio Strega. Lo faccio, in primo luogo, per condividere con loro l’emozione che ho provato nel leggere le pagine di Michele Ruol. Il romanzo è il racconto del vuoto lasciato nella vita di due genitori, Padre e Madre, dalla morte improvvisa dei loro due figli, Maggiore e Minore. Tutto, in un istante, cambia senso e direzione, perde peso, si fa vuoto, puro vuoto. Ruol racconta questa deflagrazione attraverso le cose, gli spazi, gli oggetti, i momenti, i movimenti. Una scrittura asciutta rende ancora più intensa l‘emozione che si prova nel leggere le pagine di questo inventario di una vita, dopo il più devastante degli incendi.»
immagine per Carmelo Sardo, Le notti senza memoria
proposto da:
Angelo Piero Cappello
«Di che materia sono fatti i sogni? Spesso accade che i sogni si rivelino composti di una materia viscida e scivolosa, dal fondo opaco e limaccioso, che s’appiccica alla realtà confondendone i contorni, mescolando fantasia e verità, talvolta tanto penetrando nella vita da sostituirsi a essa. Può capitare che la materia del sogno si trasfonda nella vita reale o che, al contrario, la vita reale sprofondi nelle regioni segrete del sogno. Da queste contaminazioni, da questi onirismi che anticipano la verità, o che la sostituiscono, nasce il romanzo di Carmelo Sardo che, in un linguaggio piano e scorrevole, intarsiato da qualche concessione dialettale (il dialetto di Pirandello e Camilleri), gioca a comporre e scomporre le tessere del mosaico narrativo. Ne nasce un lungo e magistrale romanzo, che convoglia, poco alla volta, realtà e sogno nel contenitore straordinario della pagina scritta.»
immagine per Leggere Dante a Tor Bella Monaca di Emiliano Sbaraglia
proposto da:
Marco Cassini
«Leggere Dante a Tor Bella Monaca di Emiliano Sbaraglia (E/O) è un libro potente, che dovrebbe essere letto e discusso nei centri e nelle periferie, nelle scuole e nelle famiglie. È la storia di un professore di una di quelle scuole definite “difficili” di una periferia “difficile”, peraltro proprio uno dei due luoghi-simbolo del territorio nazionale individuati dalla Fondazione Bellonci per il suo lodevole progetto “Storie di periferia”. Lontano dalla retorica sul senso di “missione” o “vocazione”, il docente-protagonista si definisce semplicemente un “dipendente pubblico”, che con pazienza e inventiva riesce pian piano a conquistarsi la fiducia di una classe che altrimenti sarebbe molto probabilmente destinata all’abbandono scolastico. La storia è puntellata da vivacissimi dialoghi tra l’insegnante e un gruppo di ragazze e ragazzi che “l’inferno lo conoscono già, senza bisogno di leggere Dante”. E allora da dove nasce questo bisogno? Da una felice intuizione del prof: dato l’altissimo tasso di dispersione scolastica in questo quartiere, la gran parte di loro non arriverebbe al liceo, rischiando così di mancare il decisivo incontro con il più grande poeta italiano, e con il contesto in cui nasce la lingua italiana; e allora bisogna dar loro un’opportunità di conoscerli. Nella narrazione, questo incontro è inizialmente frutto di divertenti “trucchetti” per farglielo digerire trovando collegamenti tra il loro universo e quello del Trecento fiorentino: guelfi e ghibellini come romanisti e laziali; Paolo e Francesca come i protagonisti del testo di una canzone neomelodica; le polemiche tra Cavalcanti e Cino da Pistoia come il dissing tra due rapper. Fino all’agognata vittoria finale: “Ci avevi ragione tu, professo’, ‘sto Dante è mejo de Totti”. Per questi motivi, e in primis per offrire un’occasione in più di circolazione, in particolare nelle scuole, a questo libro fresco e vigoroso insieme, che ho deciso di sottoporne la candidatura al Comitato direttivo del Premio Strega.»
immaginne per Massimiliano Scudeletti, La laguna del disincanto
proposto da:
Giovanni Pacchiano
«La scrittura di Scudeletti è asciutta, priva di enfasi o cedimenti a eccessi di pathos; febbrile in alcuni punti di maggior dramma. L’intreccio, complesso, è organizzato con molta destrezza; resa ancor più coinvolgente la storia dal continuo alternarsi di presente e passato, che crea ansia nel lettore desideroso di sapere. Ma non si creda che si tratti di un semplice thriller, o meglio ancora di un noir, vista l’aura di pratiche proibite e di sangue copiosamente sparso che pervade la vicenda. Giacché generi narrativi si fondono armoniosamente: è certo un noir, ma è anche un melò dato il largo spazio alla vicenda amorosa fra il protagonista Alessandro e la bella Fersehteh, e anche, ma forse soprattutto, è l’immagine di un mondo, il nostro mondo, che sta mutando e non in meglio per gli usi impropri di internet che possono far scambiare le fantasie oniriche, anche le peggiori e le più ignobili, in realtà (si vedano le cronache quotidiane dei giornali). Mentre la presenza nascosta del dio denaro e della volontà di potenza, due delle dominanti del nostro tempo, sono messe in discussione non con discorsi retorici ma dallo sviluppo della stessa trama, conferendo al romanzo una incisiva coloritura etica che non è certo l’ultimo dei meriti di questo straordinario libro.»
immagine per Sonia Serazzi, Una luce abbondante
proposto da:
Romana Petri
«Per le strade di Sacravento, che parrebbero scure di miseria, fiorisce invece la bellezza. C’è l’amore ferito e imperfetto tra Silverio, che vuole fabbricare il Vangelo in terra, e Marinzaina che sogna di partorire angeli. E in questa famiglia, così sghemba agli occhi del mondo, nasce Francabbù che ha imparato a correre più veloce delle sue scarpe e a cavalcare il nero con la penna. E ancora, quello di Suor Teresa di Cristo per la piccola Sarsì che vive con una bomboletta d’aria sulle spalle, celata da uno zaino luccicante. C’è la storia amara di Marsol che accarezzava un drago perché credeva gli volesse bene. Una luce abbondante di Sonia Serazzi è una favola luminosa di creature sbagliate, ma che sanno comunque scegliere cose giuste. Sonia Serazzi, con una narrazione di cristallo, in cui un cielo che comincia dal basso anima i personaggi di fiducia e di speranza, racconta la forza che nasce dalla fragilità e in cui la generosità è un movimento ininterrotto che esclude solo chi serra i pugni contro l’altro. La scrittura di Serazzi non insegue trame, ma il dispiegarsi di esistenze dove la maestà del patire si staglia contro le macerie.»
immagine per Quello che so di te di Nadia Terranova
proposto da:
Salvatore Silvano Nigro
«“La famiglia è la storia che ti racconti, il modo in cui te la racconti, mentre ognuno vive il suo pezzo di vita, la sua parte nel gruppo, a tratti indifferente alla versione degli altri. Scrivere è interrompere il non detto, o crearne uno nuovo… scrivere è creare un incantesimo; se lo scrivo accade. Scrivere è spezzare un incantesimo: se lo scrivo, non accade più”. La citazione magistralmente ritmata è stata sfilata dal grandioso romanzo di Nadia Terranova, Quello che so di te, pubblicato dall’editore Guanda. È una illuminante dichiarazione di intenti; e anche un’indicazione di lettura. Il romanzo di Nadia Terranova non è infatti una cronaca familiare che guarda all’albero genealogico. È una continua interrogazione di una Mitologia Familiare, saggiata, corretta, verificata o contraddetta, dove il detto e il non detto, il silenzio e la parola, il pudore e l’autoinganno, il sogno e la realtà, la solitudine e l’orfanezza, la superstizione e la fatalità, sono passioni dell’enunciazione: in un romanzo che, prima di tutto, guarda al valore letterario, grazie anche all’esattezza di una lingua sapientemente tersa. L’asse della storia è dato dalla ricostruzione di un caso di follia in famiglia, che diventa un viaggio nel tempo e nei corpi di una bisnonna e della narratrice: due diverse esperienze della maternità, tra dolori, incanti e alchimie fisiologiche; sull’esser donne e sull’esser padri, con sgomento e paure. Non manca, nel romanzo autobiografico di Nadia Terranova, la consueta memoria di un paesaggio d’affetto. È il quadro della sua Messina ferita dalla guerra e dal terremoto, ma sempre magica, sotto i riflessi lattiginosi dell’aerea “Lupa”: una “condensa” che oscura la costa calabrese ricordando ai messinesi che la Sicilia è un’isola, basta un po’ di nebbia per separarla dal continente».
immagine per Hilary Tiscione, Setole
proposto da:
Filippo Bologna
«Come nelle celebri tele di David Hockney o nell’indimenticabile film di Jacques Deray con Alain Delon, anche in questa storia c’è una piscina. Con l’acqua a volte limpida, a volte torbida, increspata di piccole onde. Proprio come i sentimenti di Lena, adolescente inquieta confinata in una villa su un’isola delle Hawaii, sospesa nel tempo immobile di un’estate senza fine. E attorno a questa piscina, sotto un sole stordente che si abbatte sul polveroso cantiere della dépendance e sul lussureggiante giardino, si muovono presenze sfuggenti, ombre riflesse sul fondale, indecise se tuffarsi o meno nella vasca senza fondo delle loro vite. Sono Lena, prigioniera dei turbamenti ormonali e del febbricitante languore estivo; Mira, madre depressa e femme fatale sfiorita che annega il suo malessere tra sonniferi e alcol; Cino, giardiniere tuttofare che regge sulle spalle l’eroismo silenzioso della sopportazione; e Rocco, giovane e atletico manovale che diventa il vertice di un conturbante triangolo del desiderio. Su questa Itaca dei Tropici aleggia l’assenza onnipresente di Al, musicista e compagno di Mira, padre di Lena, Ulisse smarrito, che ha dimenticato la rotta di casa e forse non farà mai ritorno alla sua reggia. Setole è un romanzo dall’atmosfera ipnotica, che avvolge da subito il lettore tra le sue spire narrative. Con una struttura compatta e incalzante, scandita in trentuno capitoli – tanti quanti i giorni di agosto – e una voce capace di captare ogni minima vibrazione dell’animo di un’adolescente, Hilary Tiscione dimostra una sensibilità di scrittura rara. Attraverso un uso del dialogo asciutto e percussivo, di chiara ispirazione cinematografica, e uno stile visivo e sensoriale, denso di immagini poetiche, l’autrice crea un efficacissimo montaggio, che alterna accelerazioni improvvise e dilatati ralenti. Tra campiture pittoriche fatte di esplosioni di luce e violenti tagli d’ombra, e una vibrante playlist che diventa colonna sonora dell’abbandono, della delusione e del tradimento, Setole si impone come un romanzo originalissimo e pop, capace di distinguersi per personalità e stile nel panorama della letteratura contemporanea.»
immagine per Wild swimming di Giorgia Tolfo
proposto da:
Laura Pugno
«Un’opera d’esordio, tra autofiction e memoir. Una donna, Giorgia, sulla soglia tra giovinezza e maturità, vuole costituirsi come soggettività assoluta, sganciata da ogni previsione di destino che la sua famiglia e la sua origine italiana, la sua provenienza da una piccola città del Veneto, possano avere in serbo per lei. Alle sue spalle, come in ogni vita, c’è un trauma: quotidiano, e quasi comune, potremmo dire, a una generazione intera, ma declinato in questa particolare vita nelle forme del silenzio, del non detto, dell’enigma che, non nascosto ma esposto, diventa emblema. Giorgia vive a Londra, la Londra post-Brexit dove le dinamiche del capitalismo si mostrano per così dire in purezza, senza infingimenti. Lì tesse incontri, eticamente non monogami, con altre donne e ragazze, a loro volta ferite ma in modo vertiginosamente più grave; e nuove reti di sostegno, familiari o antifamiliari, che continuamente devono negoziare con scelta, assenza, distanza. Perché ogni soggettività in questo nuovo mondo è una soggettività assoluta, e immergersi nell’acqua che sono gli Altri è come praticare il wild swimming, il nuoto selvaggio, in acque libere, dove non ci sono piscine o strutture artificiali a darci sicurezza, e tantomeno sistemi di salvataggio pronti ad attivarsi. Vale a dire, quello che per secoli o millenni è stato semplicemente il nuoto. E Giorgia Tolfo, autrice e protagonista di questa storia, lo sa benissimo. In Wild Swimming, con voce sicura, una voce pensante, Tolfo abbandona gli schemi tradizionali della narrazione, la freccia della storia connaturata ai modelli, culturalmente impliciti, dell’avventura e della quest: perché la nuova sfida è stare e restare, nella vita che ci si è liberamente scelte, e rimanere aperte alla possibilità di nuove ferite per non negare la possibilità stessa della relazione – di ogni relazione – celebrando il corpo e la sua vitalità sempre rinnovata, a ogni nuova notte, a ogni nuovo giorno.»
proposto da:
Luciana Castellina
«Maremma Perestrojka, il romanzo di Cecilia Tosi, è un racconto autobiografico e forse anche un esperimento ben riuscito di ricostruzione di un tempo lontano, raccontato con gli occhi di una bambina. Una storia di provincia che lambisce appena la Storia di quegli anni, ma che ne diventa palcoscenico per le vicende della famiglia in cui la protagonista vive. La storia ha la peculiarità di accendere i fari sulle difficoltà crescenti degli adolescenti a capire cosa si può fare per cambiare il mondo di oggi. Pone l’attenzione sull’urgenza di capirlo, questo Mondo, in cui il reale stesso scompare, tutto somiglia sempre più alla fantascienza e tutto si muove a una velocità eccessiva. Il racconto della vita quotidiana di Cecilia, porta il lettore a rivivere momenti in cui la Storia di un partito, di un’idea, della quotidianità di milioni di persone si troverà a un bivio, nel bel mezzo di un cambiamento epocale. Ma ovviamente, per chi ha quell’età, il mondo e la sua trasformazione passano soprattutto dalle amicizie e dal contesto familiare: un momento carico di scoperte, dubbi e primi desideri di autonomia. Il libro è un omaggio sincero alla fanciullezza di chi è cresciuto con genitori fermamente convinti dell’idea e delle regole del Partito Comunista. Uno dei passaggi, esilarante per certi versi, che racconta in maniera fotografica un’epoca e un modo di pensare, è quello della madre di Cecilia che guardando un po’ disgustata le nuove tendenze modaiole della figlia e delle sue giovani amiche, piene di gelatina sui capelli, sentenzia in maniera perentoria che “è tutta colpa di Craxi”. La storia di una bambina non più bambina, ma non ancora adulta. All’autrice il merito di aver voluto restituire, con una scrittura autentica e schietta, un pezzettino di quella Storia che si ricorda con nostalgia, e anche con molti sorrisi. Leggere questo libro fa bene, perché ci suggerisce di parlare molto più di quanto facciamo, a parlare con le, ma anche gli, adolescenti.»
immagine per La ribelle di Giorgio Van Straten
proposto da:
Edoardo Nesi
«È con la lucidità e il puntiglio dello storico che Giorgio Van Straten sceglie di raccontare la vita e la Resistenza di Nada Parri, e però non sorte mai – non può sortire – dal suo destino d’essere narratore, così ci regala La ribelle, un volume inconsueto e prezioso, antico e modernissimo, colmo di storie immense, d’attenzioni e di grazie, di nomi e di date, di ferite e dolori, di destini. Vive e palpita nelle pagine la figura di Nada Parri grazie alla lingua ricca e al tono composto e accorato di questo affresco d’un tempo furente e insensato. È un viaggio coraggioso nella terra accidentata della memoria quello che Van Straten intraprende, costellato di documenti frammentari e ricordi fallaci e lettere lancinanti e umanissime che però riescono mirabilmente a restituirci – intatta e splendente e vera – la vita amara di una donna comunista che si trovò a inseguire l’amore lungo i diacci sentieri della Storia.»
immagine per Hotel Madridda
proposto da:
Enrico Deaglio
«Sotto un cielo giallo e spesso, dissenzienti di antica data, ormai innocui, sono confinati a vegetare in un universo post trumpiano e post putiniano. Solo i più giovani hanno ancora la forza di praticare l’ultima ribellione, con il suicidio per precipitazione, dall’ultimo piano di un hotel in disarmo. Uno dei ragazzi, scappando dalle forze dell’ordine che non vogliono che nulla turbi lo status quo, si nasconde nell’appartamento di una donna che è stata una intellettuale e ancora non ha perso il gusto di osservare e dissentire. Per dissentire ci vogliono poche parole nitide, esatte, coraggiose, ironiche che sono quelle in cui questo romanzo è scritto. In tempi di volgare realtà che ha ridotto Orwell a una fiaba a lieto fine, cercare un edificio alto sulla cui terrazza lasciare il proprio senso dell’umorismo, è la bella trovata del romanzo di Grazia Verasani. E per questo lo candido al Premio Strega.»
immagine per Nicoletta Verna, I giorni di Vetro
proposto da:
Elena Stancanelli
«È un Noi che regge e scioglie il romanzo di Nicoletta Verna. In un intreccio di folgorante efficacia, la scrittrice consegna passioni e ferocia alla comunità, il paese, il tempo. Non è l’individuo ma il mondo a essere sradicato dalla violenza cieca e irrazionale della guerra. Con una scrittura piena di echi e di luce – c’è la magia di Tonino Guerra, il suo candore e la grazia, in questa lingua ibridata dal dialetto romagnolo – Nicoletta Verna si infila nella tradizione immaginifica di Elsa Morante. Se Redenta, la protagonista, è una Ida Ramunno che, nonostante l’incantamento e la scarogna, riesce a sbaragliare l’orrore, Bruno è una specie di Nino di incontenibile vitalità e coraggio, ma anche sorprendente nella capacità di amare. Intorno a loro si aggira attonita un’umanità piegata dalla fame e dall’angoscia, che arranca dentro quello scandalo. I giorni di Vetro è un romanzo con una voce potente che sa mettersi al servizio di una trama impossibile da dimenticare. Che non molla il lettore fino all’ultima pagina, all’ultima riga, all’ultima frase: “Sono io. Sono viva”. Perché per quanto si precipiti nel buio, da qualche parte c’è sempre una luce e da quella parte, sembra dire Nicoletta Verna, bisogna guardare.»
immagine per Annamaria Zizza, La dolciera siciliana
proposto da:
Marcello Fois
«Quanto ci costa in quanto uomini, protetti dalla nostra mai attenuata immunità patriarcale, riconoscere il valore delle donne fuori dagli schemi a cui possiamo attingere senza metterci in pericolo? E quanti uomini ci vogliono nella vita di una donna perché possa raggiungere il traguardo di determinare sé stessa ed esprimere il proprio talento? Queste sono le domande che risuonano in La dolciera siciliana di Annamaria Zizza, che la casa editrice Marlin porta alle stampe. Un romanzo sontuoso che abita la contemporaneità, e le sue infinite contraddizioni, senza abbandonare la tradizione, la bella storia, la bella scrittura. Bella storia e bella scrittura che viaggiano all’unisono qualificandosi l’un l’altra. Senza mai confondere in nessuno di questi campi il barocco col barocchismo. E dribblando con la sobrietà la tentazione del folk siculo mediterraneo. La vicenda si ambienta nel XVIII secolo tra la Sicilia e la Lombardia e racconta di Maria, donna troppo pericolosamente talentuosa, che disobbedisce al pregiudizio di sé stessa. La dolciera siciliana è, dunque, anche una storia di migrazione quando questa Nazione non era nient’altro che un coacervo di Nazioni. Come Lucia Mondella costretta a emigrare in un’altra terra, anche Maria, la stupefacente protagonista di questo romanzo, deve “emigrare” lontano dalla sua città. Una scrittura elegante che coinvolge senza l’illusione che si debbano necessariamente facilitare lettori non attrezzati, ma, al contrario, li si debba convincere ad attrezzarsi. Perché dalla qualità del lettore dipende la qualità della scrittura. Annamaria Zizza, come consigliava Borges, scrive sempre con un lettore dietro le spalle, ma non si volta mai a guardarlo.»

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