Presentato da
Teresa Ciabatti
«Quanto duri la giovinezza è la domanda sottesa a tutto il romanzo. Pietro Castellitto riesce a definire questo tempo nello spazio di una generazione di modo che lo sguardo in presa diretta contraddica il luogo comune secondo il quale l’essere ragazzi è trasversale, uguale per tutti. Uguale e felice. Gli iperborei testimonia che ogni epoca ha la sua età giovanile, e qui, per i quasi trentenni protagonisti, questa età coincide con la paura della fuggevolezza, col morire prima di essersi compiuti.
Tra il passato più remoto che è l’infanzia e il futuro prossimo – il trentesimo anno, come ha detto Ingeborg Bachmann – che incombe, ovvero la vecchiaia, il romanzo risponde: passa un istante. La giovinezza dura un istante.
Con una voce unica e originale, Castellitto smaschera lo scherzo dell’età senza mai tirarsene fuori. La sua è un’implosione. È la bomba che la figlia dello Svedese mette all’ufficio postale, togliendo la vita a una persona e insieme distruggendo la sua e quella del padre. Includersi nella rovina è il gesto letterario degli Iperborei.
Spudorato e pieno di grazia, scapestrato e gentile, questo romanzo fotografa l’oggi con uno stile maturo, ora anarchico, ora conservatore, sempre intimamente innovativo.
La velocità, quasi distratta, dei passaggi cruciali, l’inversione del rapporto causa effetto, la drammatizzazione quasi psichedelica dell’inezia, l’anestesia del dolore.
La scrittura di Castellitto contiene anche altro: la prova che non è necessario uccidere i padri, ma che – inglobandoli, superandoli, persino tornando a loro – si compie il passaggio. A differenza dei barboncini, i ragazzi “che covano rivoluzioni già covate”, gli iperborei rischiano per una rivoluzione dove – ecco l’inaspettato/l’impensato – padri e figli possono abitare, seppur diversamente, lo stesso frangente. In questa scoperta, in questa tenerezza mai esibita, il romanzo è sovversivo. Nella filiazione prima di tutto letteraria che tiene conto dell’eredità di stile e immaginario, incorporandola o rovesciandola, senza mai disintegrarla.
Un romanzo destinato a restare non solo per il valore in sé, ma per il rapporto che stabilisce col presente, al pari di quello stabilito da Meno di zero con gli anni Ottanta, e da Il giovane Holden con gli anni Cinquanta. In una contaminazione continua tra infanzia e età adulta, innocenza e malizia, durante un tempo violentissimo e rapido che rallenta su riflessioni in apparenza di poco conto.
Il “dove vanno le anatre d’inverno?” di Salinger qui si moltiplica, si fa dubbio anche su sé stessi: “Poldo… Ma quanti anni abbiamo noi?”.
Per tutte queste ragioni ho deciso di presentare Gli iperborei di Pietro Castellitto alla LXXVI edizione del Premio Strega.»
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