Presentato da
Romana Petri
«Gilda Policastro è al suo quarto romanzo e in quest’ultima prova mette a segno un colpo da narratrice di razza: fingere di voler avviare un’indagine su una donna morta e inscenare un teatro di voci che coralmente raccontano più vite, in coerenza con il riferimento del titolo al vitigno. Una morte e tante vite, perché “il morto non è un morto ma la morte”: quasi mai un accadimento eccezionale, come in un delitto, ma un momento atteso e fatale, specie nella sua imminenza dopo una diagnosi. Questo La parte di Malvasia lo racconta anche intessendo il narrato di citazioni e riferimenti colti (dal Gadda della Cognizione del dolore al Beckett del Krapp’s Last Tape), ma non è in questo la sua potenza. Piuttosto, nell’oscillazione della coscienza (di cui la pagina restituisce il flusso) dalla lucida consapevolezza della fragilità al buio in cui la precipitano i vuoti di senso come la malattia. Il tema, già caro all’autrice nell’esordio del Farmaco, viene qui affrontato con una nuova, più dolente umanità: nel rapporto tra Malvasia e sua madre morente si ritrovano i contrasti (“il confine esteriore dei vestiti e quello introiettato dei divieti”) e peggio ancora i non detti della più stretta tra le maglie della vita sociale, la famiglia, luogo parossistico e ossimorico di dolore e di cura. Una delle più belle pagine del libro è dedicata alla ricostruzione pseudoetimologica del verbo dialettale cuttuniare: proteggere, allestire una cuccia, ma anche costringere, trattenere, soffocare. La parte di Malvasia è un libro da leggere non tutto d’un fiato, come si dice spesso dei romanzi, ma a voce alta: per apprezzarne il ritmo, i nutrienti della scrittura, dalle percezioni minute alle pseudo-sentenze (“Madre è la specie dell’insoddisfazione”). Gilda Policastro non ha l’aspirazione del giallista, non vuole mettere tutto in ordine e arrivare a un esito: anzi, all’opposto, incaricando ambiziosamente di accostarsi a un tema irriferibile come la morte di una persona cara, disordina la trama in pezzi come in un quadro cubista e la ricompone come fa la vita, senza troppa coerenza e prevedibilità. Alla fine, quello in cui riesce Malvasia è rivivere, dopo la morte, senza concedere alibi a nessuno: a chi legge, e tantomeno a chi scrive.»
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