Le stanze dell’addio

immagine per Le stanze dell’addio Autore: Yari Selvetella 
Titolo: Le stanze dell’addio
Editore: Bompiani

Proposto da Chiara Gamberale

”Io ho ricominciato a lavorare. In altri luoghi scrivo, succhio gamberi, respiro foglie balsamiche, faccio l’amore, ma una parte di me è qui, sempre qui, impigliata a un fil di ferro o a una paura mai vinta, inchiodata per sempre: il puzzo di brodaglia del carrello del vitto, quello pungente dei disinfettanti, il bip del segnalatore del fine-flebo, la porta che si chiude alle mie spalle quando termina l’ora della visita.” Così si sente chi di noi vive l’esperienza di una perdita incolmabile: impigliato, inchiodato. Dalle pagine di questo libro affiora il volto vivissimo di una giovane donna, Giovanna De Angelis, madre di tre figli e di molti libri, editor di professione, che si ammala e muore. Il suo compagno la cerca, con la speranza irragionevole degli innamorati, attraverso le stanze – dell’ospedale, della casa, dei ricordi – fino a perdersi. Solo un ragazzo non si sottrae alla fratellanza profonda cui ogni dolore ci chiama e come un Caronte buono gli tende una mano verso la vita che continua a scorrere, che ci chiama in avanti, pronta a rinascere sul ciglio dell’assenza. Yari Selvetella dà voce a un addio che sembra continuamente sfuggire al tentativo di essere pronunciato, come Moby Dick nel fondo del mare, e scrive un kaddish laicissimo eppure pervaso del mistero che ci unisce a coloro che abbiamo amato. Attraverso il labirinto al neon degli ospedali, le stanze chiuse del lutto, il filo tracciato da una penna sul foglio bianco è ancora di salvezza, celebrazione commossa della forza vitale delle parole.

«Il dolore come uno spazio chiuso, dove non si può fare a meno di abitare; come un mare nero, che inghiotte il dorso della balena e in eterno ci costringe a inseguirla. Ma anche la potenza della vita e delle parole che – sole – possono tessere e allungare il filo per uscire dal labirinto. Yari Selvetella è un figlio del Novecento: sa che l’assurdo non può essere addomesticato. Eppure non si arrende, continua a cercare una forma, una possibilità di condivisione, e la trova dentro le stanze di un ospedale che a tutti noi sembra misteriosamente di avere conosciuto, nell’accezione reale e in quella poetica dei suoi spazi.»
Chiara Gamberale


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