Proposte

I libri proposti dagli Amici della domenica.

immagine per L'anniversario di Andrea Bajani
proposto da:
Emanuele Trevi
«È una storia eccezionale, quella di Bajani, che infrange un vero e proprio tabù: nelle prime pagine del libro incontriamo il protagonista che ci racconta dell’ultima volta che ha visto i suoi genitori, prima di voltare le spalle per sempre alla sua famiglia, disgregata dalla violenza del padre-padrone e dalla muta, disperata sottomissione della madre. Per delineare un’immagine credibile di questo inferno domestico e della fuga senza ritorno del protagonista, il narratore ricorre alle risorse del romanzo per mettere ordine nei dati dell’esperienza, spiccando quel salto mortale capace di condurlo dall’informità del “reale” alla consistenza e alla leggibilità del “vero”. Ed è solo così che una vicenda singola si trasforma in uno specchio in cui tutti i lettori possono intravedere qualcosa che non conoscevano direttamente, eppure li riguarda. L’anniversario è un romanzo avvincente e originalissimo, che colpisce chi legge come un pugno nella testa e nella pancia. Bajani non sente il bisogno né di condannare, né di perdonare, e ci racconta quanto sia impervia e necessaria la via del riscatto.»
immagine per Baracca e burattini di Dario Buzzolan
proposto da:
Massimo Gramellini
«Confesso di avere un debole per le storie familiari che incrociano la Storia, e quella di Buzzolan abbraccia un intero secolo (dal 1925 al 2025), attraversando quattro generazioni. Poi c’è la lingua. Limpida, letteraria, però mai compiaciuta. E non era facile, perché l’autore ha scelto di affidare il racconto a sei voci narranti (Eros, Emma, Elle, Ranieri, Tonino e Ada). I narratori si alternano – ora integrandosi a vicenda, ora rettificandosi, ora addirittura contraddicendosi – alle prese con il destino comune che pare segnare la famiglia, quello di “piantare baracca e burattini” e di andarsene sempre, da tutto e da tutti, si tratti di una scelta lucida e consapevole, di una costrizione, di una resa o di una fuga vigliacca. Dalla Resistenza al boom economico, dagli anni Settanta ai giorni nostri, i personaggi di Buzzolan – non semplici “funzioni” del plot, ma vere e proprie persone di cui pare possibile, pagina dopo pagina, sentire le emozioni – attraversano il secolo, i suoi sogni e i suoi orrori, allontanandosi continuamente dal proprio centro e continuamente tentando un ritorno che soltanto a uno di loro sarà consentito. C’è però un luogo capace di attrarli con costanza, una sorta di campo-base a due passi dal mare: la “Casa blu”, nata negli anni ’30 come baracca e cresciuta nel tempo fino a diventare dimora accogliente. È lei – autentico personaggio vivente – la testimone di tutte le loro scelte, degli amori, degli scontri, delle generosità e delle miserie. Soprattutto, è lei la custode – assai gelosa – del segreto che ha dannato l’intera famiglia e che, in pari tempo, potrebbe redimerla. Sono convinto che un’opera come Baracca e burattini, tanto geometrica e appassionata, tanto lucida e sconvolgente, figurerebbe degnamente tra i candidati al Premio di quest’anno.­­»
immagine per Tutto tra noi è infinito Nicola Campiotti
proposto da:
Giovanna Melandri
«Questo romanzo di formazione propone un’inaspettata prospettiva maschile alla forza incomprimibile del dolore quando chiede di essere ascoltato e trasformato. È il racconto coraggioso e coinvolgente di una crescita, di un bambino che diventa uomo e di una prova iniziatica e dolorosa che trova lo spazio della cura in una famiglia allargata, allegra, unita anche dopo la fine di un matrimonio e liberamente ispirata a quella dell’autore. Attraverso una scrittura intensa, ritmata e colta, pagina dopo pagina, il racconto ci incalza per un’urgenza segreta. Non c’è vicenda umana, anche la più dolorosa, che non conservi una luce, una verità. E questo romanzo d’esordio di Nicola Campiotti ci porta lì, in quello stato e in quell’attimo in cui, mentre tutto sembra crollare e dissolversi, il dono del perdono riesce a irradiare una trasformazione preziosa, umana e spirituale. Sorprende la delicatezza e la cura con cui l’io narrante maschile mette a fuoco una galleria di personaggi femminili. E così insieme a Teo, autore-protagonista, ci completiamo nell’osservazione del desiderio di conoscenza di un giovane ragazzo con il mondo femminile, in una relazione che costeggia intimità e verità. Auguro un grande successo a questo libro la cui eroina è finalmente una professoressa di Filosofia! Gli auguro di essere letto e apprezzato da tanti ragazzi e studenti. Il libro scorre toccando universali umani come l’amicizia, la violenza e il perdono di sé e dell’altro come presupposto di vita piena. Resta nel cuore la descrizione di una maschile stagione dell’adolescenza, un temporale in cui il mondo prende forma e il primo amore ha l’effetto di un incendio. Ma poi soprattutto c’è lei, La Maestra; una straordinaria e ruvida professoressa che obbliga i suoi alunni e noi lettori a recuperare una certezza troppo dimenticata. Non c’è IA che tenga: incontrare una Maestra, nella scuola che educa alla vita è il più grande dei doni. E dunque consiglio questo libro anche per consentirgli di raggiungere tanti ragazzi catturati dalla rete affinché cerchino e auguralmente trovino tra i muri della propria scuola una guida in carne e ossa dotata del medesimo potere maieutico della professoressa di Filosofia capace di trasformare nella libertà la vita di Teo. Questo romanzo avvincente ha il grande merito di illuminare la scuola e il suo ruolo fondamentale non solo nel rinsaldare il tessuto civile e democratico di un paese ma anche nel sostenere i ragazzi nel loro unico e speciale percorso di individuazione. Risalta il pensiero che la violenza contro le donne possa essere sconfitta solo da uomini capaci di fare dell’ascolto il proprio bagaglio principale per incontrare insieme il mondo, sé stessi e il femminile. Presento questo romanzo, ironico e profondo al contempo, nella convinzione che meriti di continuare il suo cammino verso un pubblico più ampio; per risvegliare in chi lo legge la potenza del desiderio e del perdono.»
immagine per Breviario delle Indie di Emanuel Canzaniello
proposto da:
Giuseppe Montesano
«Oggi i confini tra i generi si sono assottigliati fin quasi a sparire, e nascono ibridi strani. Non è un bene, non è un male, tutto dipende dalla qualità del risultato: e Breviario delle Indie di Emanuele Canzaniello è un ibrido che ha qualità. Il Breviario racconta il rovescio indicibile della conquista spagnola, e quindi europea, delle Americhe: a partire dal fatidico 1492 fino al secolo successivo. Canzaniello, con anarchica libertà da dettami storici o antistorici, fa salire in scena navigatori, soldati, re, banditi, preti, indios, regine, geografi, sognatori, vittime, filosofi, carnefici, cani, teologi, foreste, giuristi, scrittori. Così ci arrivano le storie del Colombo apocrifo e dei nativi apocrifi, le cronache dell’impavido e magnifico Las Casas e dell’incredibile avventuriero Cabeza de Vaca, del distruttore Pizarro e di quel De Soto che usava i cani per sbranare uomini e bambini, del distruttore Hérnan Cortés e dell’infame india la Malinche detta doña Marina che fu sua amante e tradì il proprio popolo, dell’osceno ideologo della legge del più forte Ginés De Sepúlveda e dell’almeno non ipocrita Diaz del Castillo che scrisse “siamo venuti qui per servire Dio e il Re, ma anche per farci i soldi”, dell’acuto ma ambiguo giurista De Vitoria e del luminoso Bernardino de Sahagún padre dell’antropologia. Ma queste storie ci arrivano volutamente a lacerti e frammenti, come rovine e macerie di storie: interpretate dalla voce dell’autore che interroga gli eventi, e interroga sé stesso e il lettore con una ossessività che svela come dietro la superficie apparente del saggista ci sia la furia del narratore che usa, come una sorta di lampada infera per entrare nelle tenebre del cuore umano, la metafora dello stupro e la sua realtà, la realtà del sesso come violenza ebbra di potere che il carnefice esercita sulla vittima. E il disastro che fu l’incontro tra l’Europa Cattolica e il Nuovo Mondo si mostra allora come una incomprensione unilaterale causata dalla disperata patologia dell’Occidente. A un mondo nuovo – che gli apparve nemico perché troppo vicino al suo stesso desiderio represso di un Eden sulla terra – l’Occidente vecchio applicò le sue regole mentali, le sue norme giuridiche e la sua visione della vita, attingendo a una ratio che si era modellata nell’unione della violenza idealizzata di Roma antica con la violenza ipocrita della fede al servizio di Cesare, e viceversa: una ratio che, attraverso la metamorfosi per cui l’Economia ha sostituito la cieca fede in Dio-Cesare e Cesare-Dio con la cieca fede nell’Algoritmo, è arrivata fino a noi. Nel Breviario Canzaniello muove la sua rabbia giovane ma non ingenua contro la radicale ingiustizia del più grande che mangia il più piccolo, del violentatore sadico che invoca un dio falsificato per fottere il prossimo con più godimento, della perversione incosciente di sé stessa che crede nel bene mentre fa il male, e distrugge i diversi da sé per lenire la propria impotente infelicità. E fa questo da narratore, perché non giudica, ma chiama in causa sé stesso e noi in quanto consciamente o inconsciamente oscuri a noi stessi e alle nostre brame. Breviario delle Indie mi appare, in questo Paese e in questo Occidente, un libro che deve essere letto. E non perché è un libro perfetto, ma proprio perché grazie a Dio è imperfetto: il prezzo da pagare per chi prova, in questo oggi soffocante, a uscire fuori dalla micragnosa imbellettatura e tolettatura del mainstream. Breviario delle Indie è aria viva che soffia nelle cripte dove marcisce la connivenza letteraria o pseudo-letteraria con un presente osceno e idiota.»
immagine per Ovunque andrò di Piera Carlomagno
proposto da:
Valeria Parrella
«Seguivo già da tempo la scrittura di Piera Carlomagno, ma con questo ultimo suo edito da Solferino, Ovunque andrò, di cui mi onoro anche un poco di aver inciso sul titolo (ne discutevamo, e a me sembrava molto bello, così sono stata davvero contenta che l’abbia scelto), mi sembra che lei sia arrivata a una altezza formale mai raggiunta prima. Non perde il gusto del mistero, della trama ben congegnata, che è la sua cifra, ma vi aggiunge una capacità novecentesca di descrizione, in particolare dei paesaggi del Meridione, di certe campagne che potevamo credere perdute per sempre, e invece esistono, dentro e fuori dai romanzi. E però insieme riesce a tenere il mondo contemporaneo dell’imprenditoria più azzardata, quello dei grattacieli e del capitale, per cui seguendo i personaggi, i dialoghi, pare quasi di vedere come da lì, dalla Lucania di Carlo Levi, si sia arrivati qui, a scriverci, oggi, al di là uno schermo. Lo fa attraverso la storia di Tania C., moglie di Raniero Monforti, direttore generale della divisione cinese di una prestigiosa azienda che aspetta da un pomeriggio alla mattina seguente la sentenza di un processo che la vede imputata per la scomparsa del marito, forse ucciso, forse precipitato da un grattacielo di Pechino. Così al tempo del romanzo, una notte di attesa, si intreccia il tempo lungo delle generazioni: cento anni di storia della famiglia di Tania, del nostro Sud e del nostro Paese. Terremoti, crisi economiche, fermenti politici: cose, queste, che conosciamo bene (benissimo, direi) tutti. Credo che sia un libro da far conoscere agli Amici della Domenica, e a quei lettori ai quali dovesse essere sfuggito e che hanno le antenne belle dritte su tutte le scelte che compie il nostro amato Premio.»
immagine per Sipario siciliano di Giuseppe Cerasa
proposto da:
Antonio Monda
«Presento con gioia e calore Sipario Siciliano di Giuseppe Cerasa, edito da Aragno, al Premio Strega 2025. È un memoir che riesce a essere potente e nello stesso tempo delicato, profondo e leggero, locale e universale, dimostrando quanto ha affermato Goethe nella frase scelta dall’autore in esergo: “L’Italia senza la Sicilia non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto”. Sipario Siciliano è anche un vibrante atto di amore per la propria terra che supera l’angoscia per ciò che l’affligge, a cominciare dalla mafia, colorandosi a volte di un’ironia amara e altre di orgoglio. Esemplari in tal senso il capitolo sull’immagine di Corleone e la celebrazione di chi si è rifiutato di chinare la testa, come Placido Rizzotto. Leggendo la rievocazione del quotidiano “L’Ora” mi è venuto spontaneo pensare ai fermenti del New Journalism di Truman Capote e Gay Talese, ma poi, grazie anche alla rievocazione struggente di afrori e sapori, mi sono reso conto che l’unicità di questo libro è nella riuscita mescolanza continua di tragedia e nostalgia, rimpianto e speranza, pessimismo e anelito di rinascita.»
immagine per La babilonese di Antonella Cilento
proposto da:
Sandra Petrignani
«Siamo nel 653 a.C., poi nel 1848, e ancora nel 1656. Non solo, sono passati quasi trent’anni ed eccoci nel 1683. Poi si torna all’800 e infine siamo nel nostro secolo. Stavolta Cilento passa con disinvoltura da un secolo all’altro, con consueta competenza storica, intrecciando storie e personaggi legati da quel filo segreto che alcuni chiamano mito, altri archetipo, altri semplicemente sogno. È partita da un’immagine – dichiara l’autrice – una bambina che porta una lucerna, una bambina salvifica piccola strega o maga, bambina fatata fermata nell’immaginazione pittorica e nelle leggende. Potete interpretarla come volete. A me piace leggervi una grande metafora della letteratura col suo valore salvifico per chi scrive e per chi legge. Anche perché Antonella Cilento è una narratrice che con ostinazione e originalità continua a combattere per un’idea di romanzo insensibile al facile e all’ovvio. Per questo non è semplice riassumere La babilonese e oltretutto non renderebbe giustizia al libro soffermarsi sugli intrecci della ricchissima trama. È un racconto denso di misteri e di indovinelli che cita la scrittura cuneiforme come i fumetti. È un invito a compiere un percorso, antico come l’arte e nuovissimo come un videogioco, guidati dalla vena serissima e insieme giocosa di questa sempre sorprendente scrittrice napoletana.»
immagine per Il vero nome di Rosamund Fisher di Simona Dolce
proposto da:
Filippo La Porta
«Il vero nome di Rosamund Fisher (Mondadori) di Simona Dolce è un romanzo teso, intenso e raggelato, basato su accurata documentazione storica, che racconta la biografia della figlia di Rudolf Höss, comandante ad Auschwitz: prima bambina nella villa “spettacolare” accanto agli orrori del campo, poi in fuga verso la Spagna (dove farà la modella) e infine negli Stati Uniti per cominciare un’altra vita. Qui la ritrova un giornalista, lei accetta di incontrarlo e di raccontarsi. È in parte la stessa storia della Zona d’interesse, film premiato a Cannes e ispirato a un libro di Martin Amis, ma pensata e realizzata da Simona Dolce parallelamente e attingendo anche ad altre fonti. Rispetto al film, rigoroso e asceticamente piatto, l’autrice mette al centro lo sguardo della bambina – tremante, stupito, l’unico che si interroghi criticamente – mostrandosi così più empatica e impegnata in una introspezione psicologica. Il mantra paterno rivolto alla figlia – “le cose che accadono di notte non accadono” – è l’invito sinistro a una rimozione che dovrebbe proteggere il falso idillio di quella “vita felice” ai confini del Lager. Ritmo avvincente del racconto e interrogazione sulla ordinarietà del male si tengono in ogni pagina: fallacie della memoria, nuda resistenza dei “fatti” a ogni manipolazione, attrazione del sadismo (il diritto del potere all’impunità), conflitto tra affetti e giudizio morale, identità come recita ingannevolmente liberatoria (“siamo tutti anche qualcos’altro”, le dicono in Spagna dove lei pensa a sé in terza persona, come se fosse un’altra). Unica utopia è il bucaneve che in inverno annuncia la primavera, con i suoi petali bianchi “imbevuti di una goccia di sole”: una utopia che neanche Primo Levi voleva escludere nei regimi fondati sul terrore. Non si tratta solo di un romanzo, immaginativo e documentatissimo, sulla Shoah. La sua narrazione preme, ansiosamente, sulle nostre coscienze. Anche noi, benché puntualmente informati su ogni evento del presente, viviamo dentro i nostri confortevoli stili di vita davanti a un muro invisibile che ci protegge dalle grida lontane intorno a noi e dalla cenere della Storia.»
immagine per Corallium di Paola Fabiani
proposto da:
Marcello Rotili
«Non è solo un thriller, come sembra in apparenza, il nuovo romanzo di Paola Fabiani che ambienta nella splendida Firenze di Cosimo I dei Medici, duca dal 1537 e primo Granduca di Toscana dal 1569 alla morte nel 1574, la complicata e per tanti versi penosa vicenda umana di Leone Degli Innocenti, in realtà Leone Rinaldeschi, erede ripudiato alla nascita, per le sue deformità, di una rispettata famiglia di orafi. Consegnato dalla madre, che morirà mettendo al mondo il secondo figlio, Andrea, alla ruota dello Spedale degli Innocenti con la dotazione di un panno sul quale è ricamata la R dei Rinaldeschi e un ramo di corallo, pregiato elemento in uso nella bottega di Tommaso Rinaldeschi, padre del piccolo. Quest’ultimo verrà allevato come un figlio da Suor Lucilla che gli darà il nome di Leone, quale auspicio e viatico per una vita che, da adulto, lo stesso Leone avrebbe dovuto affrontare con grande forza d’animo per affermarsi, nonostante i suoi handicap. Il romanzo si segnala per l’abile costruzione narrativa, per la sua intensità che lo rende avvincente e per la finezza dell’analisi psicologica, tanto da apparire meritevole, a mio avviso, di essere segnalato ai fini della selezione per il Premio Strega 2025.»
immagine per Leuta di Mario Falcone
proposto da:
Gianpiero Gamaleri
«Leuta è una piccola isola, un “rigurgito di terra e sassi di origine vulcanica” nel Mediterraneo, tra Malta e Lampedusa, e rappresenta il luogo immaginario di nascita, di crescita e infine di ritorno del protagonista. Il rapporto tra isola e continente domina anche l’esperienza umana e letteraria di Mario Falcone che non si appaga della sua origine siciliana ma avverte prepotente il bisogno di un’ulteriore isola della fantasia in cui collocare la sua narrazione, con la dimensione del sogno ma anche con quella del travaglio interiore e del dolore di fronte ai più diversi accadimenti della vita. Una considerazione a sé merita la scrittura di questo romanzo, che riflette efficacemente il suo lavoro di soggettista e sceneggiatore di importanti pagine di fiction televisiva nonché di opere cinematografiche. La sua tecnica espressiva gli consente di tenere avvinto anche sulla pagina scritta il lettore con la forza di sequenze visive e letterarie che vanno da efficaci immagini descrittive al ricamo di più sottili stati d’animo del protagonista e dei personaggi che gli fanno da cornice.»
immagine per Il figlio di Forrest Gump di Angelo Ferracuti
proposto da:
Lorenzo Pavolini
«Presento all’edizione 2025 del Premio Strega il romanzo di Angelo Ferracuti Il figlio di Forrest Gump (Mondadori) perché restituisce ai rapporti familiari, con il loro carico di attrazione e repulsione, il valore di una riflessione pubblica. Il romanzo di formazione di un giovane uomo che non riesce a gestire rabbia e ansia, diventa un commovente reportage – genere che Ferracuti pratica da decenni con maestria – degli ambienti dove è cresciuto e che è sul punto di abbandonare proiettandosi all’esterno alla ricerca di una riconciliazione fuori tempo massimo – o almeno un contatto, che può avvenire solo nello spazio della letteratura. Tenuta mentale, determinazione, solitudine appartengono alla scrittura come alla corsa sulle lunghe distanze e accomunano Angelo Ferracuti e il padre Mario; un padre che poche ore prima di morire, con un filo di voce, ribadisce il desiderio che il figlio con cui si è sempre scontrato scriva di lui. Il figlio di Forrest Gump è il nomignolo che alcuni amici hanno affibbiato ad Angelo per via di questo padre che a un certo punto della vita si è messo a correre e sembra non fermarsi più, diventando il terzo italiano per maratone percorse, arrivando a marciare per 48 ore no stop (303 km). Ne nasce un racconto intimo e senza sconti alla già poderosa automitologia paterna. Il romanzo di Ferracuti è l’autobiografia di un’epoca, l’interrogazione di cosa resta dello scontro generazionale vissuto nel ring di molte famiglie negli anni Settanta, l’urto del pragmatismo borghese democristiano e cauto dei padri contro lo slancio irruento dei figli come Angelo che partecipavano ai movimenti anarchici della sinistra, ordine e chiusura opposte a caos e apertura, capelli corti per non sudare troppo nella corsa contro capelli lunghi da ribelli, corse nelle strade contro proteste nelle piazze, un contrasto implacabile che ha plasmato il Paese e non è ancora sopito.»
immagine per Aqua e tera di Dario Franceschini
proposto da:
Romano Montroni
«Dario Franceschini è un autore di grande sensibilità ed eleganza. Il suo Aqua e tera è un romanzo storico potente ed emozionante, ambientato tra la fine della Prima guerra mondiale e il secondo dopoguerra nella provincia ferrarese, insanguinata dalla lotta tra i braccianti socialisti e i fascisti pronti a tutto per conquistare il potere, fiancheggiati dai proprietari terrieri. Storia, politica, famiglia, amore, lavoro sono alcuni dei temi che si intrecciano nella narrazione, con personaggi memorabili attraverso i quali prende vita tutto un mondo: si parte dal passato per arrivare alla modernità, tra speranze, delusioni, violenze, sogni. E intanto si rinnova la memoria della lotta antifascista in un appassionato racconto civile. Protagoniste sono le donne: in campagna come in città, non sono libere di amare, di studiare, di costruirsi un futuro che non sia quello di moglie e di madre. Ma non si arrendono: tenaci e solidali, lottano in segreto perché almeno le loro figlie possano un giorno seguire le proprie inclinazioni sfuggendo al ruolo che la società vorrebbe cucire loro addosso, e così farsi strada in un mondo che non sia soltanto – come si dice nel titolo – “aqua e tera”.»
immagine per Un pezzo alla volta di Michele Gambino
proposto da:
Carlo D’Amicis
«Stimolato da libri in questo senso esemplari (la lista è lunga, e va da Se questo è un uomo a Come d’aria di Ada d’Adamo) si riaccende ciclicamente il dibattito intorno al confine tra romanzo e memoir, o più in generale tra la forma letteraria e le scritture altre. Un confine destinato ad assottigliarsi e a scomparire del tutto quando ci ritroviamo davanti a un vissuto importante, radicale, e a una voce potente in grado di raccontarlo. È questo il caso di Un pezzo alla volta di Michele Gambino, giornalista siciliano in prima linea nella lotta alla mafia negli anni più sanguinari di Cosa Nostra. Se il principale nemico da sconfiggere nella guerra contro la criminalità organizzata è l’omertà, le denunce coraggiose, puntuali, di Michele Gambino e dei suoi colleghi del mensile “I siciliani” durante i caldissimi anni Ottanta (denunce che non arretrarono nemmeno di fronte all’uccisione del direttore Giuseppe Fava) rappresentano un vero e proprio atto di eroismo. Si potrebbe a lungo discutere se davvero i paesi beati sono quelli che non hanno bisogno di eroi, ma ciò che più conta, in un contesto come quello del Premio Strega, è il corto circuito che si viene a creare nel libro di Gambino tra la coscienza civile (che spinse di fatto lui e tutta la redazione del “I siciliani” a una temerarietà incosciente) e l’antiretorica della sua lingua: un corto circuito che genera a tutti gli effetti una partitura letteraria. Contribuisce non poco a questo risultato la pietas, così profonda da permettersi di essere talvolta scanzonata, dello sguardo di Gambino: la letteratura in fondo ha un unico argomento – l’umano – e in questo cerchio l’autore di Un pezzo alla volta riesce a far rientrare perfino la disumanità del nemico, rivelando il volto squallido, meschino, tragicamente banale, della violenza mafiosa. Leggendo le pagine di Gambino, la famosa frase di Giovanni Falcone – “La mafia è un fatto umano, e come tutti i fatti umani è destinato a finire”risuona di significati più profondi e ci ricorda che il fatto culturale all’interno del quale si producono gli anticorpi all’illegalità non è un mantra per le anime belle ma una postura interiore. Il valore civile di questo libro (che, ripeto, si accompagna senza intralci alla sua letterarietà) si manifesta anche nel racconto di un mestiere, quello del giornalista, che sta vivendo una parabola inquietante, minacciato da un lato dalla polverizzazione delle informazioni veicolate dalla rete e dall’altro dai condizionamenti dei cosiddetti poteri forti. Ecco dunque che il vecchio watchdog journalist, dopo aver inseguito la verità in Libano, in Afghanistan, in Colombia e negli altri scenari di guerra che Gambino ha esplorato dopo il lungo apprendistato nella sua terra d’origine, si ritrova a mentire a un taxista romano che lo sta portando a Saxa Rubra, vergognandosi di essere finito a inseguire notizie di gossip in un rotocalco televisivo del primo pomeriggio. È una delle tante scene memorabili di questo libro, dove il dramma si fonde alla commedia, dove l’ironia diventa una declinazione del tragico, dove la bellezza sopravvive alla miseria. È ciò che accade, solitamente, nella vera letteratura.»
immagine per Casa che eri di Giorgio Ghiotti
proposto da:
Giulia Caminito
«Giorgio Ghiotti ha iniziato a pubblicare a diciotto anni e da subito ha mostrato un talento naturale e profondo per la lingua, una maturità nella consapevolezza dello scrivere che è assai difficile trovare. In Casa che eri (Hacca) si vede la sua crescita nella ricerca della parola giusta, nel ritmo rinforzato e tenuto delle frasi e nella volontà di far sposare una prosa più classica, tradizionale e novecentesca, con un linguaggio contemporaneo, spregiudicato, vivo, giusto per la sua età e il suo sguardo. Colpisce di questa narrazione la sua capacità di raccontare una generazione a lui prossima, quella dei quaranta-cinquantenni, che già si abbandonano a una certa nostalgia del passato appena trascorso e che però ancora vivono a pieno la maggior parte delle proprie giornate. Al centro del romanzo c’è una amicizia, anzi più amicizie che negli anni hanno avuto un ruolo di casa e di famiglia e che sembrano essere arrivate a un cambiamento doloroso. Ma all’interno del libro sono le immagini, più che la trama, a guidare la lettura, immagini corporee di incontri fortuiti e sessualità acuminate, di maternità atipiche e in pericolo, di case e rifugi, immagini di riferimenti letterari che non suonano mai scontati o di facciata. Nel passo della voce narrante ritroviamo l’amore di Ghiotti per la poesia e riconosciamo anche la sua forza nel non doversi mai piegare a mode del momento, ma nel mantenere dritta la barra della bella scrittura e della voglia di raccontare, senza fronzoli e senza voyerismi, quanto oggi siano imprevedibili e malinconiche le relazioni più intense della nostra vita.»
immagine per Di spalle a questo mondo di Wanda Marasco
proposto da:
Giulia Ciarapica
«Di spalle a questo mondo di Wanda Marasco (Neri Pozza) è di certo un romanzo ispirato al racconto della vita di Ferdinando Palasciano, primo chirurgo a proclamare il principio di neutralità dei feriti di guerra e che, come quel Vincenzo Gemito che pare consegnargli il testimone, trovò nella follia uno sguardo più lucido sulla realtà. Così com’è anche il romanzo di un’altra protagonista, Olga Pavlova Vavilova, moglie di Palasciano. Ma dire che il romanzo di Marasco si limiti a questo, vorrebbe significare la negazione di un senso più profondo dell’intera storia, fatta innanzitutto di ricerca stilistica più che di trama. Se è vero che la claudicanza di Olga è pronta a trasformarsi in una zoppia universale, che appartiene a noi tutti – uomini e donne di ieri e soprattutto di oggi –, è altrettanto vero che questa claudicanza interiore ha uno scopo principe in questo romanzo, quello di attribuire una verità alla fragilità umana. Marasco parte dal corpo, e in primo luogo quello dei due protagonisti, per far sì che proprio questo strumento umano si trasformi in uno strumento di scrittura, un mezzo attraverso cui l’autrice – con tutta la sua personalità drammaturgica – ci racconta chi siamo stati e cosa continuiamo a essere. Lo fa con una lingua che non ha altri punti di riferimento se non sé stessa, un lavoro di artigiano raffinatissimo che unisce più dimensioni: la lingua di appartenenza, quella delle madri, quella d’origine casalinga (dunque dialettale); quella imparata, con lo studio e la pazienza; e quella della poesia, grazie a cui Marasco, con pochi termini sontuosi e tuttavia terreni, riesce a dare parola e sostanza all’invisibile che rincorriamo ogni giorno.»
immagine per Ricordi di suoni e di luci di Renato Martinoni
proposto da:
Pietro Gibellini
«Renato Martinoni è concordemente ritenuto il maggior narratore svizzero di lingua italiana del nostro tempo, oltre che studioso di alto profilo e professore emerito di Letteraratura italiana all’Università di St. Gallen. Per narrare questa Storia di un poeta e della sua follia lo scrittore si è certo giovato dello specialista di Dino Campana, ai cui Canti Orfici ha dedicato un esemplare commento  (Einaudi, 2003, più volte riedito e ristampato) e sul quale ha procurato studi innovativi (Orfeo barbaro, Marsilio, 2017). Ma lo studioso si è qui posto totalmente al servizio dello scrittore, inventivo e profondo. L’incandescente vicenda fisica e mentale del protagonista, resa con soluzioni stilistiche originali e cortocircuiti immaginativi sorprendenti, e con una ammirevole qualità linguistica, si versa in una calcolata architettura: quattro parti (La fata verde, La fata bianca, La fata rossa, La fata nera), ciascuna di sei capitoli. Riviviamo gli ultimi anni di vita del grande poeta Dino Campana: dal 1915, l’anno successivo alla pubblicazione dei Canti Orfici, fino al 1932, l’anno della morte in manicomio, dove Campana è entrato quattordici anni avanti. Come chiarisce l’autore nell’Avvertenza finale, in questo romanzo la realtà e la fantasia a volte si incontrano, altre si intrecciano, altre ancora si mescolano in un gioco narrativo dove verità e  invenzione si trasformano in una “fiaba lirica” (come ha osservato Dacia Maraini commentando il precedente romanzo di Martinoni, La campana di Marbach, Guanda 2020, che ha per protagonista un altro diverso, il pittore Antonio Ligabue). Proprio per allontanare il racconto da una realtà altrimenti troppo riconoscibile, il protagonista viene chiamato “il poeta”, oppure (come lo definisce la gente, con disprezzo) “lo strambo”, “il vagabondo”, “il matto”. Il nome di Campana compare difatti soltanto alla fine dell’ultimo capitolo del romanzo, proprio per tenere lontana la narrazione dalla biografia, creando insieme uno stato di suspense. Infatti il romanzo non vuole narrare la vita di un uomo, anche se lo scenario è quello dei luoghi realmente frequentati dal “matt Campèna” nella sua mania ambulatoria e le persone, pur con nomi diversi (Sibilla Aleramo è Samia), sono quelle con cui ha avuto dei rapporti. Esso segue una tesi molto accattivante: quella secondo cui la follia consegue alla progressiva coscienza dell’impossibilità, per chi sa di essere stato un poeta grande e originale, di essere ancora poeta: della perdita della Poesia, insomma.»
immagine per Paradiso di Michele Masneri
proposto da:
Gian Arturo Ferrari
«Con la levità crudele del suo maestro Alberto Arbasino, Michele Masneri ha dipinto un hortus conclusus sulla riva del Tirreno laziale – il Paradiso del titolo, appunto – abitato da una fauna umana eterogenea ma accumunata da una decisa propensione all’insensatezza e al disfacimento. In questa sorta di presepe capovolto, microcosmo in cui si rispecchia se non il mondo almeno la mondanità contemporanea, viene a capitare un estraneo, il giovane giornalista, ingenuo e sprovveduto, che funge da protagonista. Eppure sarà proprio lui, l’estraneo, a restare prigioniero di questo luogo magico e della sua rovina. Dato che dal Paradiso, che forse è l’Inferno, non si può uscire.»
immagine per Chiudo la porta e urlo di Paolo Nori
proposto da:
Giuseppe Antonelli
«“Io, quella lì era una storia”. In Chiudo la porta e urlo di Paolo Nori la vita diventa letteratura, la poesia diventa racconto. Il gioco di specchi tra le poesie di Raffaello Baldini e l’autobiografia di uno scrittore sessantenne si frantuma in acuminate schegge narrative. Frammenti di un racconto umoroso – curioso, pensoso, a tratti furioso – sul senso della vita e della letteratura. Tasselli di un mosaico sghembo il cui disegno complessivo s’intuisce solo visto da lontano, dalla distanza dei ricordi. “Io mi ricordo tutto”. E dunque memoriale degli affetti e delle letture: amarcord sempre in bilico tra italiano e dialetto. La doppia anima delle poesie di Baldini – scritte nel suo dialetto di Sant’Arcangelo di Romagna e da lui stesso tradotte in italiano – riflessa in una lingua che del dialetto trattiene l’intimo ritmo, le cadenze interiori. Esito di una lunga ricerca e di una lenta conquista, come ricorda Nori: “una lingua che non era una lingua neutra e non era una lingua scritta da uno che ci teneva si vedesse che aveva dato sette esami di filologia, era una lingua che aveva molto a che fare con l’italiano che si parlava a Parma”. Una ricerca filologica, nondimeno, che passa attraverso i testi e i documenti di Baldini conservati negli archivi e scava al tempo stesso nel proprio vissuto. Tutt’uno con la ricerca esistenziale di un senso (“ho passato gli anni a chiedermi Quand’è che si vive?”), a volte ritrovato in una manciata di versi. Nella capacità della poesia di Baldini di cogliere quei momenti – impalpabili e sorprendenti – in cui “succede una cosa semplicissima e meravigliosa: si vive”. Il risultato è un romanzo così allegro e disperato che non sembra neanche un romanzo. Un atto di fede nella letteratura che ci fa ridere, pensare, sognare, commuovere: vera benedizione che ci fa sopportare tutto il male detto del mondo.»
immagine per Confiteor di Piergiorgio Paterlini
proposto da:
Lorenza Foschini
«Settant’anni di vita, raccontati come fossero l’attraversamento di tre secoli con i mutamenti epocali che dall’Ottocento al nuovo millennio si sono succeduti. L’autore riavvolge in modo del tutto originale il proprio percorso interiore – ma profondamente immerso nella realtà – senza mai ricorrere al flusso di coscienza, ma con lo stile del grande narratore di storie. Un libro che gioca dunque con il memoir e con l’autobiografia, ma che in realtà è un romanzo, il romanzo della formazione “permanente” di un uomo dolcemente libero. Sembra di sentire Paul Auster quando dice: “I miei libri biografici non sono autobiografie, non è tanto la storia mia che mi interessa, ma usare le mie esperienze per pormi delle domande sul mondo”.»
immagine per La linea del silenzio di Gianluca Peciola
proposto da:
Gioacchino De Chirico
«Del romanzo di Gianluca Peciola si può dire a buon diritto ciò che a volte si sostiene a sproposito: è un libro necessario. Ambientato negli anni Settanta, è il romanzo di formazione di un bambino, poi ragazzo, che fa i conti con due segreti di famiglia. Uno, molto personale, riguarda l’identità di un padre che non ha mai conosciuto. L’altro, che da personale si fa politico, riguarda il vero motivo per cui la sua amata “cugina” Laura si trova in carcere. E il motivo è che è stata coinvolta nella lotta armata delle Brigate Rosse, ha partecipato ad azioni armate, è stata carceriera di Aldo Moro. Trovo questo romanzo necessario perché è una rivisitazione potente e originale di un periodo importante della nostra storia. Gli eventi, i protagonisti, i processi sono in gran parte noti, ma non lo sono i modi e i motivi in cui le ferite di quegli anni infettano ancora il corpo vivo del nostro Paese: modi e motivi che hanno a che fare con la psiche, con l’inconscio collettivo. Così nel romanzo la famiglia, la paternità, i legami tra le persone non sono solo elementi che compongono una trama: sono ciò che dà senso alla Storia. Gianluca Peciola ha preso la sua vicenda umana e l’ha usata come chiave di lettura del passato di tutti. Lo ha fatto con generosità non solo nella rievocazione storica, ma nella resa narrativa: con uno stile che si concede vari registri, da quello del lessico famigliare a quello del discorso politico, e su cui domina quello della riflessione intima, capace di farsi universale. Ed è così che questo libro esce fin dalle prime pagine dal novero dei memoir e si colloca pienamente nel dominio della letteratura. Particolarmente interessante mi sembra infine il percorso – sicuramente di scavo interiore – con cui Gianluca Peciola autore ha creato un Gianluca personaggio che va oltre lui stesso. Un protagonista che prova a capire, a contrastare, a emulare, a rifiutare, stremato e disorientato in un mondo in cui la sua crescita è un percorso a ostacoli, pieno di menzogne, di non detti e di conti da fare con la storia. La perfetta metafora di un Paese.»
immagine per La guerra dei Traversa di Alessandro Perissinotto
proposto da:
Alessandro Barbero
«La guerra dei Traversa è il conflitto che spacca la famiglia omonima per più di un secolo, e inizia nello stesso anno in cui l’Italia comincia la sua discesa verso la dittatura e poi verso la Seconda Guerra Mondiale: il 1922. È il 18 dicembre del 1922, il giorno della strage di Torino, a segnare lo spartiacque tra un passato di tranquilla imprenditoria e un futuro di rovina economica e morale. In quel giorno, le camicie nere guidate da Piero Brandimarte danno l’assalto alla Camera del Lavoro di Torino e scatenano una furiosa caccia all’uomo nei quartieri operai della metropoli piemontese. I dati ufficiali parlano di undici persone uccise, ma in realtà i fascisti rapiscono, torturano e massacrano una trentina di uomini, i cui corpi vengono gettati nel Po o abbandonati nei boschi della collina. La strage del 18 dicembre investe i Traversa come un cataclisma dal quale neppure le generazioni successive potranno salvarsi. A raccontare queste vicende è un membro della famiglia la cui identità rimane occultata fino agli ultimi capitoli del romanzo: la sua narrazione conduce il lettore attraverso le pieghe della Storia, dalle violenze squadriste ai campi di detenzione per esuli stranieri in Francia, dai bombardamenti aerei sulle città italiane agli interventi dei militari italiani per salvare gli ebrei nella Francia occupata. Fedele al dichiarato proposito di “rammendare la memoria” che guida da tempo la sua scrittura, Perissinotto mescola ricostruzione storica e invenzione, ma rispetto alle sue opere precedenti qui il dosaggio dei due ingredienti cambia: a prevalere è ora il “racconto del vero”. Un “vero” che non perde la sua essenza neanche quando viene trattato come materia romanzesca, e raccontato con il ritmo incalzante del romanziere che cerca di inchiodare il lettore e impedirgli di interrompere la lettura. L’autore utilizza la famiglia Traversa (che, neanche troppo velatamente, è il ramo paterno della sua stessa famiglia) come lente di ingrandimento per l’esame di un passato i cui fantasmi sembrano pronti a riapparire nel nostro presente e nel nostro futuro. Per la trama mai scontata, per le scelte narrative che ne segnano l’architettura, per la cura del tessuto linguistico e per l’ostinata speranza che la letteratura possa funzionare da campanello d’allarme, questo romanzo, a mio avviso, merita la candidatura al Premio Strega.»
immagine per La coscienza delle piante di Nikolai Prestia
proposto da:
Daniele Mencarelli
«Tempo, spazio e lingua. Uno scrittore si colloca fra questi temi con lucidità e non meno istinto. Sa cogliere il punto di caduta di un fenomeno per l’ossessivo esercizio del suo sguardo, e sa avverarlo in parole. Nikolai Prestia, con il suo La coscienza delle piante, ci avverte di un pericolo, ribaltando il punto di vista rispetto alla presunta crisi dei nostri giovani. Il problema non sono le nuove generazioni, ma noi, gli adulti e il nostro mondo, dove conta solo il traguardo e il suo raggiungimento. Tanti, come Marco, il protagonista del romanzo, falliscono, non centrano l’obiettivo. Ma è dal fallimento che si genera la vera consapevolezza di sé. La coscienza delle piante è un romanzo crudo, denso di vita e realtà, e Nikolai Prestia uno scrittore che resterà inciso nei prossimi anni della nostra letteratura.»
immagine per Noi, il segreto di Annella Prisco
proposto da:
Corrado Calabrò
«Un incontro occasionale in treno con un giovane sfuggente, uno sguardo con la sensazione di un déjà vu, fanno andare in fibrillazione lo scontato tran-tran coniugale di un’insegnante, sconvolgendo certezze acquisite con un finale a sorpresa.»
proposto da:
Beppe Cottafavi
«L’Italia è un paese che ha prodotto molta comicità (a teatro, al cinema, in televisione, nelle vignette sui giornali) ma in cui chi scrive per fare letteratura crede quasi sempre di dovere enunciare concetti alti, alati e profondi, prendendosi molto sul serio. Insomma, amiamo scherzare, ma ci vergogniamo di ridere. Soprattutto scrivendo e leggendo. Ne è una prova satirica l’incipit di autocandidatura di Racconti scritti da donne nude, per Rizzoli Lizard di Stefano Rapone. “Richiesta Premio Strega Spettabile gruppo degli Amici della Domenica, mi chiamo Stefano Rapone e sono un giovane e promettente scrittore. Vi scrivo, per l’appunto, per informarvi del fatto che sto ultimando un testo che sicuramente rientrerà nelle vostre corde e sarà da voi giudicato idoneo a ottenere la vittoria del vostro premio più prestigioso, il famigerato Premio Strega”. A seguire Rapone tormenterà anche i giurati dei premi Campiello e Bancarella nella sua idea irriverente di ambire per scherzo all’empireo della letterarietà. Allora perché no? Perché non esaudire il suo desiderio? Rapone fa sulla pagina quello che gli riesce bene sul palco. Parte da un discorso serio e rilassato poi lo squarcia e lo strania con una frase o un’immagine. Un esempio esilarante: scrive un racconto in cui la Madonna sbaglia i luoghi, i tempi e i destinatari delle sue apparizioni. È un libro molto divertente che segnalo alla vostra attenzione e non solo come gesto situazionista e metaletterario. Perché è letteratura. Che fa molto ridere. Peraltro lo Strega esordisce nel 1947 con il Premio a Flaiano che ci avvertiva “La satira in Italia non è molto coltivata, per motivi che forse possono trovarsi nell’Estetica di Croce, la quale considera la Satira come la Cenerentola della letteratura. Qui regna il culto dell’arte e della poesia in senso assoluto. Ognuno, scrivendo, ha per modelli la Divina Commedia, I Promessi Sposi, I Malavoglia […], e nessuno si guarda attorno per capire i lati assurdi, non diciamo ridicoli ma comunque sfrenati della vita che ci circonda. Farlo è mettersi in una posizione di isolamento”. (Ennio Flaiano, “Opere. Scritti postumi”, a cura di Maria Corti e Anna Longoni, Milano, Bompiani 1996, p. 1222.) La solitudine del satiro, appunto.»
immagine per Perduto è questo mare di Elisabetta Rasy
proposto da:
Giorgio Ficara
«La definizione stessa di “romanzo”, in effetti, appare insufficiente per descrivere un libro straordinariamente composito in cui l’arte del ritratto, l’affresco memoriale e la riflessione (sottilissima) su un’epoca difficile, si legano in un dettato originale. Due personaggi, un padre sognatore, allegro, sventato, inconcludente, evanescente, e a suo modo funesto, e un amico famoso e intelligentissimo, Raffaele La Capria, tengono la scena. Se il padre – aviatore sotto il fascismo, poi avvilito fainéant nella Napoli del dopoguerra – rappresenta una specie di fatale sottrazione nella vita della figlia, l’amico scrittore, uno dei sommi del nostro tempo, è il “di più” di spirito, stile e ispirazione cui ogni vita ambirebbe. La forma stessa del libro si piega con grande naturalezza ora alla vicenda del padre, progressivamente tortuosa, ora al magnifico ritratto, per quadri pressoché slegati e fermi, di La Capria: un uomo affascinato dalla “riposante superficie della vita” come dai suoi abissi; uno scrittore-filosofo che osserva il dolore nelle cose stesse; un camminatore, come Palomar, tormentato dalla nostalgia del “paesaggio perduto”… Perduto è questo mare contiene sullo stesso piano narrazione e meditazione, e memoria classica, appunti, sospensioni critiche, come in un vero romanzo. Particolarmente prezioso oggi, nel tempo della sua (decisiva?) reductio all’unum della cronaca e del resoconto.»
immagine per Fuochi di Lisbona di Paolo Ruffilli
proposto da:
Maurizio Cucchi
«Ecco il romanzo, Fuochi di Lisbona (Passigli), persuasiva opera di un poeta, mosso, anche, dall’ammirazione per un grande autore del Novecento, Fernando Pessoa. L’io narrante si muove sulle tracce dell’amato poeta, nella città di lui, Lisbona, e qui nasce per lui, rapidamente, una vicenda d’amore, parallela a quella vissuta da Pessoa stesso, di cui Ruffilli cita, da lui tradotti, vari passaggi. Ne scaturisce un’opera molto originale, nel suo percorso e nella sua struttura, nei suoi passaggi e nelle vicende raccontate, un testo, dunque, che riesce, in modo sorprendente, a porsi come felice narrazione con sensibili intuizioni poetiche.»
immagine per Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol
proposto da:
Walter Veltroni
«Per la prima volta segnalo un romanzo ai giurati del Premio Strega. Lo faccio, in primo luogo, per condividere con loro l’emozione che ho provato nel leggere le pagine di Michele Ruol. Il romanzo è il racconto del vuoto lasciato nella vita di due genitori, Padre e Madre, dalla morte improvvisa dei loro due figli, Maggiore e Minore. Tutto, in un istante, cambia senso e direzione, perde peso, si fa vuoto, puro vuoto. Ruol racconta questa deflagrazione attraverso le cose, gli spazi, gli oggetti, i momenti, i movimenti. Una scrittura asciutta rende ancora più intensa l‘emozione che si prova nel leggere le pagine di questo inventario di una vita, dopo il più devastante degli incendi.»
immagine per Leggere Dante a Tor Bella Monaca di Emiliano Sbaraglia
proposto da:
Marco Cassini
«Leggere Dante a Tor Bella Monaca di Emiliano Sbaraglia (E/O) è un libro potente, che dovrebbe essere letto e discusso nei centri e nelle periferie, nelle scuole e nelle famiglie. È la storia di un professore di una di quelle scuole definite “difficili” di una periferia “difficile”, peraltro proprio uno dei due luoghi-simbolo del territorio nazionale individuati dalla Fondazione Bellonci per il suo lodevole progetto “Storie di periferia”. Lontano dalla retorica sul senso di “missione” o “vocazione”, il docente-protagonista si definisce semplicemente un “dipendente pubblico”, che con pazienza e inventiva riesce pian piano a conquistarsi la fiducia di una classe che altrimenti sarebbe molto probabilmente destinata all’abbandono scolastico. La storia è puntellata da vivacissimi dialoghi tra l’insegnante e un gruppo di ragazze e ragazzi che “l’inferno lo conoscono già, senza bisogno di leggere Dante”. E allora da dove nasce questo bisogno? Da una felice intuizione del prof: dato l’altissimo tasso di dispersione scolastica in questo quartiere, la gran parte di loro non arriverebbe al liceo, rischiando così di mancare il decisivo incontro con il più grande poeta italiano, e con il contesto in cui nasce la lingua italiana; e allora bisogna dar loro un’opportunità di conoscerli. Nella narrazione, questo incontro è inizialmente frutto di divertenti “trucchetti” per farglielo digerire trovando collegamenti tra il loro universo e quello del Trecento fiorentino: guelfi e ghibellini come romanisti e laziali; Paolo e Francesca come i protagonisti del testo di una canzone neomelodica; le polemiche tra Cavalcanti e Cino da Pistoia come il dissing tra due rapper. Fino all’agognata vittoria finale: “Ci avevi ragione tu, professo’, ‘sto Dante è mejo de Totti”. Per questi motivi, e in primis per offrire un’occasione in più di circolazione, in particolare nelle scuole, a questo libro fresco e vigoroso insieme, che ho deciso di sottoporne la candidatura al Comitato direttivo del Premio Strega.»
immagine per Quello che so di te di Nadia Terranova
proposto da:
Salvatore Silvano Nigro
«“La famiglia è la storia che ti racconti, il modo in cui te la racconti, mentre ognuno vive il suo pezzo di vita, la sua parte nel gruppo, a tratti indifferente alla versione degli altri. Scrivere è interrompere il non detto, o crearne uno nuovo… scrivere è creare un incantesimo; se lo scrivo accade. Scrivere è spezzare un incantesimo: se lo scrivo, non accade più”. La citazione magistralmente ritmata è stata sfilata dal grandioso romanzo di Nadia Terranova, Quello che so di te, pubblicato dall’editore Guanda. È una illuminante dichiarazione di intenti; e anche un’indicazione di lettura. Il romanzo di Nadia Terranova non è infatti una cronaca familiare che guarda all’albero genealogico. È una continua interrogazione di una Mitologia Familiare, saggiata, corretta, verificata o contraddetta, dove il detto e il non detto, il silenzio e la parola, il pudore e l’autoinganno, il sogno e la realtà, la solitudine e l’orfanezza, la superstizione e la fatalità, sono passioni dell’enunciazione: in un romanzo che, prima di tutto, guarda al valore letterario, grazie anche all’esattezza di una lingua sapientemente tersa. L’asse della storia è dato dalla ricostruzione di un caso di follia in famiglia, che diventa un viaggio nel tempo e nei corpi di una bisnonna e della narratrice: due diverse esperienze della maternità, tra dolori, incanti e alchimie fisiologiche; sull’esser donne e sull’esser padri, con sgomento e paure. Non manca, nel romanzo autobiografico di Nadia Terranova, la consueta memoria di un paesaggio d’affetto. È il quadro della sua Messina ferita dalla guerra e dal terremoto, ma sempre magica, sotto i riflessi lattiginosi dell’aerea “Lupa”: una “condensa” che oscura la costa calabrese ricordando ai messinesi che la Sicilia è un’isola, basta un po’ di nebbia per separarla dal continente».
immagine per Wild swimming di Giorgia Tolfo
proposto da:
Laura Pugno
«Un’opera d’esordio, tra autofiction e memoir. Una donna, Giorgia, sulla soglia tra giovinezza e maturità, vuole costituirsi come soggettività assoluta, sganciata da ogni previsione di destino che la sua famiglia e la sua origine italiana, la sua provenienza da una piccola città del Veneto, possano avere in serbo per lei. Alle sue spalle, come in ogni vita, c’è un trauma: quotidiano, e quasi comune, potremmo dire, a una generazione intera, ma declinato in questa particolare vita nelle forme del silenzio, del non detto, dell’enigma che, non nascosto ma esposto, diventa emblema. Giorgia vive a Londra, la Londra post-Brexit dove le dinamiche del capitalismo si mostrano per così dire in purezza, senza infingimenti. Lì tesse incontri, eticamente non monogami, con altre donne e ragazze, a loro volta ferite ma in modo vertiginosamente più grave; e nuove reti di sostegno, familiari o antifamiliari, che continuamente devono negoziare con scelta, assenza, distanza. Perché ogni soggettività in questo nuovo mondo è una soggettività assoluta, e immergersi nell’acqua che sono gli Altri è come praticare il wild swimming, il nuoto selvaggio, in acque libere, dove non ci sono piscine o strutture artificiali a darci sicurezza, e tantomeno sistemi di salvataggio pronti ad attivarsi. Vale a dire, quello che per secoli o millenni è stato semplicemente il nuoto. E Giorgia Tolfo, autrice e protagonista di questa storia, lo sa benissimo. In Wild Swimming, con voce sicura, una voce pensante, Tolfo abbandona gli schemi tradizionali della narrazione, la freccia della storia connaturata ai modelli, culturalmente impliciti, dell’avventura e della quest: perché la nuova sfida è stare e restare, nella vita che ci si è liberamente scelte, e rimanere aperte alla possibilità di nuove ferite per non negare la possibilità stessa della relazione – di ogni relazione – celebrando il corpo e la sua vitalità sempre rinnovata, a ogni nuova notte, a ogni nuovo giorno.»
immagine per La ribelle di Giorgio Van Straten
proposto da:
Edoardo Nesi
«È con la lucidità e il puntiglio dello storico che Giorgio Van Straten sceglie di raccontare la vita e la Resistenza di Nada Parri, e però non sorte mai – non può sortire – dal suo destino d’essere narratore, così ci regala La ribelle, un volume inconsueto e prezioso, antico e modernissimo, colmo di storie immense, d’attenzioni e di grazie, di nomi e di date, di ferite e dolori, di destini. Vive e palpita nelle pagine la figura di Nada Parri grazie alla lingua ricca e al tono composto e accorato di questo affresco d’un tempo furente e insensato. È un viaggio coraggioso nella terra accidentata della memoria quello che Van Straten intraprende, costellato di documenti frammentari e ricordi fallaci e lettere lancinanti e umanissime che però riescono mirabilmente a restituirci – intatta e splendente e vera – la vita amara di una donna comunista che si trovò a inseguire l’amore lungo i diacci sentieri della Storia.»
immagine per Hotel Madridda
proposto da:
Enrico Deaglio
«Sotto un cielo giallo e spesso, dissenzienti di antica data, ormai innocui, sono confinati a vegetare in un universo post trumpiano e post putiniano. Solo i più giovani hanno ancora la forza di praticare l’ultima ribellione, con il suicidio per precipitazione, dall’ultimo piano di un hotel in disarmo. Uno dei ragazzi, scappando dalle forze dell’ordine che non vogliono che nulla turbi lo status quo, si nasconde nell’appartamento di una donna che è stata una intellettuale e ancora non ha perso il gusto di osservare e dissentire. Per dissentire ci vogliono poche parole nitide, esatte, coraggiose, ironiche che sono quelle in cui questo romanzo è scritto. In tempi di volgare realtà che ha ridotto Orwell a una fiaba a lieto fine, cercare un edificio alto sulla cui terrazza lasciare il proprio senso dell’umorismo, è la bella trovata del romanzo di Grazia Verasani. E per questo lo candido al Premio Strega.»

Le votazioni sono chiuse

Puoi consultare il calendario per conoscere le prossime scadenze: se non trovi le indicazioni puoi richiederci direttamente le informazioni che ti servono.