Presentato da
Filippo La Porta
«Un romanzo che proviene da una malinconica provincia italiana, tra Marche e Romagna, tra orchestrine di liscio, motoraduni e non-luoghi dispersi nel paesaggio del Rinascimento, una ballata straziante come un blues, che inventa uno “sguardo”, quello dell’io narrante, candido e maniacale – cameriere con diploma di terza media – e discende da una costola della linea emiliana dei Celati e Cavazzoni. Un personaggio “non sapiente”, cui il padre – sassofonista in un complessino di polke – comprava atlanti ed enciclopedie, che rimugina caparbiamente sul mondo e su di sé, con una vocazione al fallimento. Livi ha saputo dare voce –poeticamente – a una alterità assoluta, a un tipo umano deragliato: “Povera Ava, a lei è toccata la parte della persona normale, a me è toccata la parte del tipo strano che dice sempre no”.
Presenta una lingua che, pur appartenendo a quel filone letterario “emiliano”, rifugge da ogni tentazione manieristica e anzi possiede una vibrante freschezza: il ritmo lievemente sincopato del monologo interiore, un effetto di parlato della strada (con vaga eco dialettale o gergale: “era così bello desiderare le donne, sdocchiarle”), una naturalezza naïf appena straniante (anch’essa artificio formale). Si tratta di una naturalezza, finemente lavorata, nata non tanto da una poetica aprioristica quanto dall’esperienza stessa. Micro-romanzo di formazione, interi destini condensati in una frase: “Io e la gente abbiamo litigato tanti anni fa e ormai non ho più speranze di far pace”.
Ha delle invenzioni narrative straordinarie e intriganti: ad esempio quando il protagonista si lascia con la moglie e si innamora della cassiera Agnese, si vergogna a inviarle per mail una dichiarazione d’amore che ha scritto. Allora col traduttore automatico la traduce in lingua zulu, aggiungendole di ritradurla dallo zulu in italiano.
Nelle istruzioni per comporre una canzone, da parte del maestro un po’ mattoide, troviamo una indicazione metodologica utile in qualsiasi campo artistico. Per scrivere una canzone occorrono anzitutto rabbia (“è dalla rabbia degli oppressi che sono nati i grandi capolavori”), poi fiducia in sé stessi, e infine la regola delle regole: “devi imparare a fare schifo”. Qualsiasi melodia “quando esce dalla testa fa schifo”, in seguito viene messa a posto. All’inizio bisogna abbandonarsi liberamente all’ispirazione, senza paura di essere banali, poi occorre limare e dare una forma, immaginando di trovarsi in un teatro pieno, con tutte le persone che conosci.»
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