Proposto da
Maria Ida Gaeta
«È un libro non collocabile facilmente né per generazione né per lingua in un contesto già noto della narrativa italiana. È un libro che sorprende per la scatenata vitalità e autenticità della lingua. È un libro che poggia sapientemente su una grande tradizione ed è popolare. Sta dalla parte dei matti, degli idioti, fuori dai margini, dove spesso sta la letteratura o comunque dove la letteratura sa stare. Un libro in cui un “cocciamatte” di paese, un uomo che non ha mai conosciuto il padre e che ha perso la madre da ragazzino, ormai anziano, solo, racconta in prima persona la sua vita e nel farlo riattraversa buona parte del Novecento. Con un linguaggio gergale e personalissimo, intriso di dialetto abruzzese, scorrono le vicende di una esistenza segnata da una infanzia e una giovinezza povere , il servizio militare in Friuli, il ritorno a casa, di nuovo la ripartenza per cercare lavoro al nord, il lavoro in fabbrica, lo sfruttamento e la scoperta della politica, il legame e la solidarietà con gli altri emarginati, la disillusione e la fine dei sogni di riscatto, il carcere e il manicomio, fino al definitivo ritorno al paese dove viene accolto come “cocciamatte” e da questa condizione si mette a scrivere, a più di ottanta anni e prima di morire. E scrive con grandissima umanità, commuovendo e divertendo i lettori.
È un romanzo che ha una voce. Le vicende narrate e lo stile della scrittura sono il personaggio stesso, coincidono. Il matto Liborio con la sua vita sconquassata, con il suo parlato /scritto, con i suoi amici e i suoi nemici, con la solitudine che lo avvolge, si fa ascoltare e ci conquista. »