Titolo: La compagnia delle anime finte
Editore: Neri Pozza
Presentazione di Paolo Di Stefano, Silvio Perrella
Dalla collina di Capodimonte, la «Posillipo povera», Rosa guarda Napoli e parla al corpo di Vincenzina, la madre morta. Le parla per riparare al guasto che le ha unite oltre il legame di sangue e ha marchiato irrimediabilmente la vita di entrambe. Immergendosi «nelle viscere di un purgatorio pubblico e privato», Rosa rivive la storia di sua madre: l’infanzia povera in un’arida campagna alle porte della città; l’incontro, tra le macerie del dopoguerra, con Rafele, il suo futuro padre, erede di un casato recluso nella cupa vastità di un grande appartamento in via Duomo; il prestito a usura praticato nel formicolante intrico dei vicoli, dove il rumore dei mercati e della violenza sembra appartenere a un furore cosmico. È una narrazione di soprusi subìti e inferti, di fragilità e di ferocia. Ed è la messinscena corale di molte altre storie, di «anime finte» che popolano i vicoli e, come attori di un medesimo dramma, entrano sulla ribalta della memoria: Annarella, amica e demone dell’infanzia e dell’adolescenza; Emilia, la ragazzina che «ride a scroscio» e torna un giorno dal bosco con le gambe insanguinate; il maestro Nunziata, utopico e incandescente; Mariomaria, «la creatura che ha dentro di sé una preghiera rovesciata»; Iolanda, la sorella «bella e stupetiata». «Anime finte» che, nelle profondità ipogee di una città millenaria, sono segnate tutte, come Vincenzina e come la stessa Rosa, da un guasto che attende una riparazione. Riparazione che, nelle pagine finali del libro, giunge inaspettata ad accomunare Rosa e Vincenzina in un medesimo destino.
La straordinaria forza espressiva che Wanda Marasco ha messo in mostra nelle prove narrative precedenti trova una conferma in questo magma in cui ribolle l’eterna commedia umana.
Paolo Di Stefano
Marasco non si arrende mai, compone fino alla fine il suo Stabat mater; e chi legge è preso nel gesto dell’incantamento narrativo e sente che agisce in queste pagine il dèmone del racconto.
Silvio Perrella