Titolo: Mandami tanta vita
Editore: Feltrinelli
Proposto da Gad Lerner, Rosetta Loy
Moraldo, arrivato a Torino per una sessione d’esami, scopre di avere scambiato la sua valigia con quella di uno sconosciuto. Mentre fatica sui testi di filosofia e disegna caricature, coltiva la sua ammirazione per un coetaneo di nome Piero. Alto, magro, occhiali da miope, a soli ventiquattro anni Piero ha già fondato riviste, una casa editrice, e combatte con lucidità la deriva autoritaria del Paese. Sono i giorni di carnevale del 1926. Moraldo spia Piero, vorrebbe incontrarlo, imitarlo, farselo amico, ma ogni tentativo fallisce. Nel frattempo ritrova la valigia smarrita, ed è conquistato da Carlotta, una fotografa di strada disinvolta e imprendibile in partenza per Parigi. Anche Piero è partito per Parigi, lasciando a Torino il grande amore, Ada, e il loro bambino nato da un mese. Nel gelo della città straniera, mosso da una febbrile ansia di progetti, di libertà, di rivoluzione, Piero si ammala. E Moraldo? Anche lui, inseguendo Carlotta, sta per raggiungere Parigi. L’amore, le aspirazioni, la tensione verso il futuro: tutto si leva in volo come le mongolfiere sopra la Senna. Che risposte deve aspettarsi? Sono Carlotta e Piero, le sue risposte? O tutto è solo un’illusione della giovinezza? Paolo Di Paolo, evocando un protagonista del nostro Novecento, scrive un romanzo appassionato e commosso sull’incanto, la fatica, il rischio di essere giovani.
Paolo Di Paolo è un giovane scrittore e un giovane intellettuale. Con Mandami tanta vita ha scritto un romanzo che lo smarca rispetto ai suoi coetanei troppo autoriferiti e anche rispetto alle cadenze del romanzo storico in senso stretto. Di Paolo ha preso le mosse, lo si intende benissimo, da una fascinazione per la figura di Piero Gobetti. Per la sua carica ideale. Per la sua curiosità intellettuale e politica. Per quel tanto di severo e sacrificale che c’è nel suo impegno. Poi è andato oltre. Gobetti diventa, soprattutto nel confronto con la moglie Ada, un personaggio non privo di fragilità e di stupefazione di fronte al mondo. Ma il vero colpo di genio è stato destare, fuori dall’area del documento storico, un personaggio coetaneo di Gobetti, Moraldo. Moraldo viene dalla provincia, non sa che fare della sua vita, e anche quando si imbatte, per un mero scambio di valigie, con una bella fotografa di strada, non sa riconoscere il profilo dei sentimenti che prova, la forza dell’attrazione. Quello che sa è che vorrebbe incontrare Gobetti, frequentare Gobetti, essere amico di Gobetti, forse essere come Gobetti. E dunque lo spia, lo insegue, gli scrive, ma senza effetto. Solo a Parigi avrà la fortuna di incontrarlo e la forza di rivolgergli la parola. Troppo tardi. Forse il potenziale di inquietudine e di ribellione che c’è in Moraldo rientra nel conformismo, rientra in un destino di accettazione e rassegnazione. Non lo sappiamo. Di Paolo fa scorrere fianco a fianco due giovinezze, e noi sentiamo come si tendono gli elastici di quelle due diverse avventure – una quasi disumana tanto si leva sopra il vivere comune, l’altra vitale ma confusa, manipolabile, goffa. Siamo nel 1926. C’è Torino colta nelle sue geometrie quotidiane, nelle sue mattine fredde, piovose. C’è un carnevale funestato dall’acqua. C’è la gente che si muove e di lì a poco sarà la piccola gente che dice definitivamente sì al fascismo. Siamo nella città della Fiat, di Gramsci, dei Consigli. Gobetti sa bene in che baratro sta precipitando l’Italia. Lo sa così bene da pensare di osteggiarlo ricominciando tutto da capo a Parigi, e da morirne. Moraldo cerca di capire. Cerca di trovare un bandolo attraverso la figura del grande amico che vorrebbe avere ma che non sa neppure imitare. Ecco, in questa prossimità di esistenze Di Paolo immette un pathos quasi elettrico, un rovello nevrotico che arriva a noi, ed evoca ombre di un disagio esistenziale (e civile) che riconosciamo. Minaccioso e familiare.
Gad Lerner
Questo non è un romanzo ma in parte lo è, ma non è neanche cronaca, anche se racconta fatti realmente accaduti. E il disegno affiora come una calcografia già dalla prima pagina, con quella folgorante immagine della sprezzante presunzione di uno studente alto e magro, dai capelli arruffati, inappuntabilmente vestito con i polsini di celluloide, che in un’aula universitaria abbandona la lezione, contestando il professore che legge un canto del Purgatorio. Senza fare il suo nome, Paolo Di Paolo entra nella storia di Piero Gobetti come una lama che taglia il sipario su una Torino nebbiosa e ancora sabauda negli anni dell’ascesa e del grande consenso del fascismo, e gli affianca un personaggio inventato: Moraldo. Quasi un palo intorno a cui avvolgere la breve vita e la morte di Gobetti. Con loro, che non si incontreranno mai nonostante ogni tentativo di Moraldo, passiamo lungo Corso Vittorio e Corso Regina Margherita, via Cernaia e sotto i portici di Piazza San Carlo, e mentre avvertiamo gli odori e lo scricchiolio delle ruote di una città ancora sabauda, nello stesso tempo percepiamo la forza e la determinazione, l’intelligenza turbinosa del giovane figlio del droghiere di via XX Settembre che non intende sottostare a un regime che ha dichiarato guerra alla democrazia . Ma Gobetti non è solo l’editore dallo sconfinato coraggio e la sconfinata presunzione propri della giovinezza, sono bellissime anche le pagine che raccontano l’amore e la tenerezza nei confronti della moglie e di quel loro bambino, il Pussin, che lui ha la gioia di conoscere solo per pochi giorni prima di essere massacrato di botte dai fascisti e costretto a lasciare Torino. E ancora e sempre incalzato dalla cocciuta indomabile aspirazione a produrre qualcosa di intellettualmente vivo, si trasferisce a Parigi: saranno ancora una manciata di giorni, poi la clinica vicino al Bois de Boulogne e la morte. Romanzo e verità si mescolano quasi naturalmente in “Mandami tanta vita” e Paolo Di Paolo ce li racconta senza mai perdere in velocità o scadere nella retorica ma cogliendo ogni volta i particolari più significativi con una maturità di scrittura veramente sbalorditiva. Pagine dove la forza inventiva dell’autore trova il suo alimento in un linguaggio spiazzante e ha per risultato due priorità in letteratura: l’interesse sull’argomento e l’abilità nel raccontarlo senza mai scivolare dall’asse d’equilibrio su cui ha scelto di camminare come se fosse il suo “habitat” naturale.
Rosetta Loy