Titolo: La città di Adamo
Editore: Fazi
Presentazione di Giuseppe Leonelli, Massimo Onofri
Marcello Vinciguerra è un imprenditore agricolo di successo. La sua azienda, ereditata dal padre, è una tra le più importanti d’Italia. Ha una bella moglie, Ludovica, donna sofisticata e complessa, proprietaria di un negozio di arredamento e amante del lusso e del design, vive in una bella casa, conduce una vita – almeno in apparenza – piena di sicurezze. Una sera, però, un servizio televisivo dedicato a un potente boss della camorra fa riaffiorare nella sua memoria un ricordo dell’infanzia. E con il ricordo il dubbio. Quel boss era lo stesso uomo che lui e suo padre incontrarono, tanti anni prima, in mezzo a strani edifici a forma di cilindro? Chi era davvero suo padre? E quale ombra si nasconde nel passato della sua famiglia? L’inquieto affollarsi di queste domande spingono Marcello a una ricerca ossessiva della verità, che in una crescente spirale di avvenimenti – tra cui la scoperta di una misteriosa fotografia risalente ai primi anni Cinquanta e un breve viaggio in un’immaginaria cittadella camorrista – lo porterà a scontrarsi con un mondo inafferrabile e ambiguo, in cui tutti possono essere onesti o collusi, corrotti o corruttori.
Ho letto con molto interesse e piacere questo secondo romanzo di Giorgio Nisini, che si colloca a pieno diritto nella non troppo folta schiera dei nostri più interessanti scrittori under ‘40. Protagonista è un giovane imprenditore agricolo di successo. Una sera d’ottobre, egli vede apparire sullo schermo di un televisore che trasmette un programma sulla camorra l’immagine di un uomo e di un bambino. Marcello riconosce in quell’immagine se stesso e il proprio padre. È l’inizio di un tumultuoso viaggio attraverso il tempo alla ricerca della vera identità del padre. L’io di Marcello viene investito da un vortice che travolge tutti i riferimenti della propria vita: la memoria del padre, innanzi tutto, su cui è strutturata la propria stessa identità, la madre, la moglie, gli operai delle proprie aziende. È una appassionata e appassionante discesa nel Maelstrom. Alla fine, grazie alla meditazione su un famoso ragionamento di Sant’Anselmo sull’esistenza di Dio, comincia la risalita.
Giuseppe Leonelli
Marcello Vinciguerra, che vive in una bella villa d’un piccolo paese dell’alto Lazio, è il proprietario d’una delle più importanti aziende ortofrutticole italiane. Conduce una vita serena e agiata ed è sposato da oltre dieci anni con Ludovica, «una donna bella, elegante, ricca, piena di interessi e di curiosità, titolare d’un negozio di arredamento e d’un pingue conto in banca. Finché un giorno non accade l’imprevisto: quando, da un Brionvega Algol appena acquistato dalla moglie, sintonizzato su un programma di raidue dedicato a un boss della camorra appena arrestato (il figlio di Adamo), non gli capita di riconoscere, in un filmato d’archivio degli anni ’70, l’immagine di sé da bambino e di suo padre che passeggiano per le vie di Eurano, il quartiere di Caserta che per anni era stato il «bunker» della famiglia camorrista dei Pastorelli. La domanda, subito inquietante, è cruciale: che ci facevano lì a Caserta lui e suo padre? Quel padre di specchiata onestà e di non molte parole che aveva saputo costruire dal nulla uno dei più prosperi imperi economici dell’Italia contemporanea? E che rapporti aveva veramente avuto con Adamo, un uomo brillante e persino appassionato di letteratura umoristica? È da qui che Marcello, figlio di Vittorio Vinciguerra (uno che ha, nel nome e nel cognome, le stigmate della vittoria) ormai morto, comincia la sua vera telemachia che guadagna subito l’aspetto d’un giallo esistenziale e morale, là dove «la linea di separazione tra ciò che si immagina e ciò che è» si fa sempre più sottile. In una narrazione di lento scavo psicologico, piena di riferimenti occulti e citazioni, di interrogazioni persino metafisiche, Nisini affonda il suo bisturi, sferragliando, di sorpresa in sorpresa, sui binari di un singolare pirandellismo che solo alla fine verrà contraddetto. Ne è venuto fuori il romanzo di uno sperimentalismo etico che continuamente dissimula se stesso dentro una scrittura che non s’appaga dei facili oltranzismi della forma.
Massimo Onofri